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Articoli filtrati per data: Mercoledì, 01 Maggio 2013
Mercoledì, 01 Maggio 2013 22:00

Proverbio del giorno

"Casa senza fimmina 'mpuvirisci..."

Pubblicato in U cuttili da Cummari
Mercoledì, 01 Maggio 2013 22:00

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Pubblicato in Chi Siamo
Mercoledì, 01 Maggio 2013 22:00

CITTANOVA

- di Rocco Giuseppe TASSONE -

            Ai piedi di Zomaro, a 400 mt s.l.m. immersa in un mare d'ulivi secolari e castagneti a 23 Km dal golfo di Gioia Tauro, c'è Cittanova (RC) una amena cittadina di circa 10.000 abitanti. Edificata nel 1618 come risulta da atto presente nell'archivio di stato di Napoli, dal principe di Gerace Grimaldi con  il nome di  Nuovo  Casal di Curtuladi, distrutta dal terremoto del 1638 venne ricostruita come Casalnuovo e dopo il terremoto del 1783 che la vide completamente rasa al suolo e nel quale morì la principessa Grimaldi in visita ai suoi poderi, venne ricostruita e ribattezzata successivamente, 1852 con decreto di Ferdinando II di Borbone, con l'attuale nome di Cittanova. La cittadina è racchiusa tra le fiumare Vacale e Serra a carattere torrentizio. Cittanova ha un centro storico di grande valore architettonico ed artistico. Da visitare palazzo Germanò, palazzo Calfapietra, palazzo Adornato e palazzo Muratori con i loro portali in pietra  e balconi ed inferriate in ferro battuto. Di grande valore le numerose chiese di cui la più bella è senza alcun dubbio la Chiesa del Rosario ricostruita in stile neoclassico ai primi dell'ottocento dal sacerdote Siciliani e che dal 1999 è elevata a Santuario. Anche la Chiesa Matrice di fine settecento è un pregevole monumento artistico-architettonico che conserva opere di grande valore scultoreo come la statua di S.Girolamo, patrono, dello scultore calabrese Domenico De Lorenzo. Interessanti anche le "Varette", statue lignee realizzate tra il 1821 ed il 1893 da Francesco e Vincenzo Biangardi e che vengono tutt'oggi utilizzate per la processione del venerdì santo. Nella stessa chiesa riposa la sventurata principessa Grimaldi morta in occasione del terremoto del 1783. Anche la chiesa di San Rocco ha il suo valore artistico-architettonico e per le sue dimensioni viene considerata la più grande chiesa a navata unica presente nella Piana di Gioia Tauro. Abbiamo ancora la Chiesa dei Santi Cosma e Damiano della prima metà dell'800, la Chiesa della Catena costruita tra il 1851 e il 1860 dall'arciprete Luzio in corrispondenza dei resti della Chiesa di Santa Maria di Campoforano (1600-1783). Ed ancora la Chiesa di S.Giuseppe e S.Giovanello del 1865, quella della Sacra Famiglia del 1884 (voluta da Rosa Tarsitani), la Chiesa del Calvario ad opera dell'ing.Avenoso del 1912, la chiesa del Crocifisso, la Chiesa della Madonna delle Grazie e della Misericordia che conserva un dipinto del messinese Giuseppe Bonaccorsi del 1901. Altra opera fondamentale di Cittanova sono le fontane disperse per la città grazie all'abbondanza delle sue acque. Tra queste ricordiamo la fontana dei marmi all'interno della villa comunale, la fontana Masotta, la fontana dell'Olmo. Da visitare il museo di storia naturale aperto nel 1996 dove troviamo la sezione di zoologia, quella di paleontologia, di geologia, petrografia e mineralogia, quella botanica e micologica. Ma la caratteristica principale di Cittanova e la grande Villa comunale, un vero e proprio polmone per la piana, e riconosciuta come Monumento Nazionale di interesse storico-naturalistico dal Ministero per i beni culturali ed ambientali. La Villa è stata fortemente voluta da Carlo Ruggiero ed è stata progettata dall'ingegnere svizzero Fehr tra fine ottocento e primi del novecento. Ha un patrimonio botanico di grande valore come il Ginepro della Virginia, la Cycas revoluta, il Cedro del Libano, la Sequoia gigante, il Tiglio argentato, il Pinus pinea, la Palma delle Canarie, la Quercia rossa, ed all'esterno i giardini inglesi. Il  Santo patrono è  San Girolamo ma vengono festeggiati anche S. Rocco (festa principale), i SS Cosma e Damiano e la Madonna della Catena. E' sede del liceo classico "V.Gerace" , del liceo artistico e del liceo scientifico "Guerrisi". Tra i suoi personaggi sono da ricordare: Vincenzo Gerace, poeta (1876-1930); Alberto Cavalieri, poeta (1897-1967) autore della chimica in versi; Domenico Muratori (1771-1850) eroe di Vigliena, avvocato e deputato; Luigi Ghitti (1784-1853) economista; Giuseppe Raffaele Raso (1788-1861) medico,deputato, patriota; Domenico Tarsitani (1817-1873) ostetrico fondatore della clinica ostetrica università di Napoli; Diomede Marvasi (1823-1875) senatore; Vincenzo Colucci (1844-1918) professore scienza zooiatrica; Vincenzo de Cristo (1860-1928) storico;Vincenzo Toscano (1862-1932) drammaturgo; Michele Guerrisi (1893-1963) scultore; Arturo Zito de Leonardis (vivente) storico.

BIBLIOGRAFIA:

R. G. Tassone: Miraculu di Ddiu chira matina viaggio etnografico-glottologico tra preghiere e canti religiosi in Calabria vol I ed. Pr. U.F.C. e Comune di Candidoni 2002

R.G. Tassone: E Jeu no’ mi movu di cca’ si Maria la grazia no’ mi fa’ viaggio etnografico-glottologico tra preghiere e canti religiosi in Calabria vol II ed. Pr. U.F.C. 2007

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Mercoledì, 01 Maggio 2013 22:00

SANT’ARPINO (Caserta)

 

- di Antonio DELL’AVERSANA -

  (m.40 s.l.m.)

Abitanti: Santarpinesi (14.404 unità nel 2009)

Territorio e risorse: Il paese è situato a metà strada tra le Città di Napoli e Caserta. Ha un territorio di soli 3,2 kmq ed una densità demografica di quasi 5.000 persone per kmq.

Il suo abitato è, ormai, saldato con quelli dei Comuni limitrofi di Succivo, Orta di Atella, Frattaminore, Cesa (la cosiddetta “conurbazione atellana”) assieme ai quali fa parte dell’”Unione dei Comuni ATELLA”.

Il suo sito occupa gran parte della superficie dell’antica città osco-etrusca di ATELLA di cui è riconosciuto  essere storicamente la continuità temporale. Il paese, infatti, “ nasce” ufficialmente con questo nome nel 455, dopo la distruzione di Atella ad opera del Re Vandalo Genserico. Gli atellani superstiti, sotto la guida del loro Vescovo di origine africana (Mauritania) ELPIDIO, ricostruirono un borgo di Atella cui, successivamente, diedero il nome di S.ELPIDIO . Il nome attuale è la corruzione volgare di S.Elpidio che è anche il Santo Patrono.

Nella Storia Sant’Arpino ha vissuto  tutte le vicende susseguitesi nella Campania, appartenendo ora ad uno ora ad altro dei popoli invasori. Nei secoli ne sono stati feudatari  diverse Famiglie Nobili, tra cui i CARAFA, i SANCHEZ DE LUNA D’ARAGONA, i CARACCIOLO.

I Sanchez De Luna , alla fine del 1500, vi costruirono un bellissimo Palazzo Ducale il cui ultimo proprietario, tra il 1903 ed il 1932, è stato il messinese Giuseppe MACRI’, singolare figura di Garibaldino.

Nel Centro storico degni di nota sono: il Palazzo Ducale (sec.XVI), la Chiesa di S.Elpidio Vescovo

(sec.XVI), Chiesa di S.Francesco di Paola (sec.XVI), Romotorio di S.Canione ((sec.VI), Palazzo Zarrillo (sec.XVII), Palazzo Magliola (sec.XVI).

Abbandonata da quasi un cinquantennio la vocazione agricola, vista la quasi totale scomparsa di aree da coltivare, Sant’Arpino è diventato attivo  soprattutto nel campo del terziario, con fabbriche di abbigliamento, liquori, dolciumi, scarpe.

Tradizioni e prodotti tipici:

Il paese non ha prodotti tipici locali. Mantiene viva, però, la tradizione del CASATIELLO, tipica torta rustica campana del periodo Pasquale, con una Sagra giunta alla XVIII edizione.

Da 12 anni esso è diventato anche una tappa importante  del Teatro Scuola con la Rassegna Nazionale “PULCINELLAMENTE” , che si volge sotto l’alto patrocinio della Presidenza della Repubblica.

I locali dove si possono degustare le specialità campane sono:

-          Ristorante  “LA MANDRAKATA”;

-          Ristorante   “LA CASTELLANA”;

-          Pizzeria      “VESUVIO”.

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Mercoledì, 01 Maggio 2013 22:00

Trapani

 

- di Giuseppe Cavarra - 

 

“Culla dei miti”: una delle tante definizioni che si danno della Sicilia. Stereotipo quanto si vuole, ma, andando in giro per l’isola, ci si accorge che non c’è lembo di terra o tratto di mare a cui non sia legato un mito, una leggenda, un rito.
Le leggende hanno tutte un fondo di verità e in più di un caso ce ne danno conferma i ritrovamenti archeologici. Sembra accertato che, molto prima dei fenici, i micenei - e forse prima di loro i cretesi – si spinsero con le loro navi verso occidente, stabilendo approdi permanenti anche in Sicilia. In una nave ritrovata in fondo al mare al largo di Lipari sono stati rinvenuti una settantina di mestoli in ceramica, tutti di produzione micenea (da assegnare quindi all’inizio del II millennio). Durante il banchetto, gli antichi usavano portare il vino in tavola in un grande vaso (era detto “cratère”) dal quale i commensali attingevano con un mestolo il vino da bere versandolo, prima di berlo, nella propria coppa.

Pare che quei mestoli fossero destinati alle isole minori dell’arcipelago eoliano. Altri ritrovamenti hanno consentito di formulare ipotesi abbastanza precise sulle rotte occidentali seguite dagli antichi marinai partiti alla ricerca di preziose materie prime, in particolare lo stagno, necessario per produrre il bronzo in lega col rame.

A giudizio di molti, i miti di Scilla e Cariddi, i due mostri posti l’uno di fronte all’altro sulle sponde dello Stretto, sottintendono i pericoli che la navi minoiche incontravano in un tratto di mare come quello dello Stretto ritenuto dagli antichi il più rischioso tra quelli conosciuti. Così pure la leggenda di Dedalo sottintenderebbe gli scambi culturali fra gli achei e le antiche genti di Sicilia. Come si sa, Dedalo era l’architetto che, fuggito dal Labirinto miceneo insieme col figlio Icaro, giunge volando con ali di cera e piume ad Agrigento, dove il re Cocalo gli affida l’incarico di costruire “grandi palazzi”.


Tra le leggende più antiche c’è anche quella dei Giganti, esseri mostruosi (cento in tutto, ma si conoscono solo trentaquattro dei loro nomi) nati da Gea e dal sangue d’Urano. Pur di origine divina, erano mortali, ma potevano morire solo se affrontati da un dio e da un mortale insieme. La guerra che essi intrapresero contro gli dèi olimpici li vide sconfitti per mano di Zeus che li punì incatenandoli alle pareti infuocate dell’Etna. Efesto, che aveva la sua fucina nelle viscere del vulcano, era aiutato nel suo lavoro di abile fabbro dai ciclopi Argo, Stèrope e Bronte. Ulisse incontra i loro discendenti alle pendici dell’Etna.

Nel Golfo di Catania, davanti ad Aci Trezza, fanno ancora bella mostra di sé i “faraglioni”, i macigni montani che, come immaginò Omero, Polifemo divelse dalle cime dell’Etna e scagliò contro Ulisse fuggitivo. Sulla costa ai piedi del vulcano lo scorgerà Enea scendere cieco verso il mare per andare, appoggiandosi ad un tronco di pino, a lavarsi il sangue che gli sgorga dalla fronte. Quando avverte sul lido la presenza di qualcuno, lancia un orribile urlo. A quel grido tremano le acque del mare, trema spaventata la terra d’Italia. Il vulcano manifesta il suo stupore mediante un sordo boato. Pochi tratti, ma sufficienti per dirci quanto poco sia rimasto del “mostro” omerico nel Polifemo virgiliano.
Una tradizione raccolta dalle vite virgiliane più antiche attesta che Virgilio usava trattenersi a lungo in Sicilia. Dalla “Vita Donati” (VI sec. d. C.) sappiamo che il poeta “soggiornò moltissimo” nelle proprietà che possedeva, oltre che in Campania, anche nell’isola. Il poeta doveva avere dell’isola una buona conoscenza, vista la precisione con la quale descrive i luoghi in cui ambienta le vicende “siciliane” raccontate nel suo poema. Ne abbiamo avuto prova durante un recente viaggio in provincia di Trapani, dove abbiamo avuto modo di constatare che, mentre il III libro dell’ “Eneide” ospita un patrimonio mitico che fa perno sull’ “orrore di forze naturali ostili” (Eolo, Scilla, Cariddi, Poliremo), il V libro, dedicato quasi interamente ai ludi funebri fatti celebrare da Enea in onore del padre Anchise, vede protagoniste pressoché uniche le località di Drepano (l’odierna Trapani) e del monte Erice.

Dopo un anno di indugio a Cartagine, Enea parte alla volta del Lazio che è la meta ultima del suo lungo peregrinare, ma una tempesta lo costringe a ritornare in Sicilia e, approdato «in porto amico», pronuncia commosse parole ai piedi del monte Erice.
Un tempo dalla costa si saliva ad Erice (per i trapanasi è semplicemente “u munti”) per una strada che attraversava una folta pineta; oggi alberi se ne vedono pochi e quelli rimasti fanno fatica a riprendersi dalle offese recate dai vasti incendi che si sono verificati nella zona negli ultimi anni. Da lassù abbiamo “rivisto” il litorale «secco di sterpi bruciati» e, in lontananza, tra il biancheggiare delle onde, il grande scoglio (oggi è il cosiddetto “Scoglio degli Asinelli”) stabilito da Enea come meta della gara nautica. Abbiamo visto giù la “fragile Trapani”. L’espressione è di V. Consolo che aggiunge: «Sembra stretta, quella città, da una parte e dall’altra, da grandi lastre di vetro, risplendenti nel sole, che sono i bassi bacini, le squadrate saline, punteggiate dai coni tronchi dei mulini a vento sopra gli argini».

Abbiamo “rivisto” l’isolotto della Colombaia, dove le colombe sacre a Venere Ericina scendevano e poi, travolte dal desiderio, risalivano per abbandonarsi ad eros.

Erice non conserva molti segni del suo passato, ma, tutto sommato, difende come meglio può la propria identità. Le mura che la circondano sono quelle ciclopiche edificate in pietra viva dai fenici (IV sec.). Il tratto occidentale, che è il più maestoso, è anche quello sul quale si aprivano le tre porte dell’antico borgo: la Porta del Carmine, la Porta Spada e la Porta di Trapani. Ben conservati la cattedrale dedicata all’Assunta (sec. XIV) e il campanile isolato che era in origine una torre di vedetta. Qualche rudere, più immaginario che reale, resta del tempio di Venere Ericina (Virgilio la chiama “Idalia”, forse dal monte Idalia in Cipro). Secondo una tradizione fu Enea a dedicarlo alla madre; secondo un’altra tradizione, quando Eracle passò dalla Sicilia con gli armenti sottratti a Gerione, il re di Erice volle sfidarlo per ottenere qualche bue, ma fu ucciso dall’eroe che, a ricordo dell’accaduto, fece costruire sulla cima del monte il tempio dedicato alla dea dell’amore.
La struttura disadorna del borgo, le case senza intonaco che si affacciano sui cortili, le viuzze che si snodano sul grigio acciottolato ci ripagano delle fatiche del viaggio.

Ripercorrendo la strada per la quale ci eravamo inerpicati per raggiungere l’altura dominante il mare, ritorniamo verso la costa. Le saline e i mulini a vento usati per macinare il sale creano intorno alla “città falcata” un caratteristico paesaggio. L’antico nome della città era “Drèpanon” che significa proprio “falce”: Il nome le venne dal promontorio sul quale sorge la città. La lingua di terra che si protende verso Levanzo ricorda secondo alcuni la falce del dio Saturno, secondo altri il falcetto che teneva in mano Cerere durante la ricerca affannosa della figlia Proserpina rapita da Plutone.


Diodoro Siculo attesta che nell’antichità il tempio di Venere Ericina era venerato e rispettato da tutti. Enea lo «adornò con molte offerte»; i Sicani «onorarono con sacrifici la dea per molte generazioni» e «dotarono il suo tempio con splendidi doni»; i Cartaginesi, «signori di una parte dell’isola, non tralasciarono di onorare la dea in modo straordinario»; i Romani, «impadronitisi di tutta la Sicilia, superarono tutti i loro predecessori in onori verso di lei». «I consoli e i governatori che arrivavano in Sicilia investiti di una qualsiasi autorità - aggiunge lo storico di Agira – quando giungevano ad Erice, deponevano il volto austero dell’autorità, e passavano a scherzi e a compagnie di donne con molta allegria, in quanto erano convinti che solo così rendevano la loro presenza gradita alla dea».

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Mercoledì, 01 Maggio 2013 22:00

CANDIDONI

- di Rocco Giuseppe Tassone -    

Lungo i confini Nord della Piana di Gioia Tauro, ai piedi delle Serre, a separare la provincia di Reggio Calabria da quella di Vibo Valentia troviamo il piccolo ed ameno paese di Candidoni che da un altura di 239 m ed un territorio ampio 26,8 kmq, dai piedi dei monti si proietta conquistando dolcemente il mare Tirreno, rappresentando, il centro abitato, un vero e proprio balcone sulle Valli del Mesima, del Metramo e del Petrace.

     Di origine sicuramente greca come vuole la tradizione che racconta la leggenda di un nobile guerriero, che a seguito dell’invasione della vicina Medma da parte dei Longobardi e Saraceni, scappò verso l’interno fino a raggiungere un affaccio sul mare ma sufficientemente lontano a cui diede il proprio nome: Kandidus da cui Candidoni.

     Le vicende storiche vedano il centro muoversi su e giù su una scala di valore e di importanza politico-economica che ha seguito le sorti della vicina e più importante città di Borrello.

Appartenne al gran Giustiziere di Calabria Giovanni Candida e ai suoi eredi. Nel 1054 Unfrudo il Normanno acquistò il paese con le sue terre e due anni dopo lo cedette al fratello Roberto conte di Calabria. Passò qualche anno sotto Gualtiero Appard, poi sotto Carlo d’ Angiò, Tommaso d’ Argot e Ruggero di Lauria, i Sanseverino, casa d’ Aragona e quindi, come contea di Borrello passò ai Pignatelli che governarono fino al 1806.

     Il legame con Borrello non è stato solo politico, ma anche nella sorte. Il terremoto del 1783 ha cancellato definitivamente Borrello e devastato gravemente Candidoni che ha avuto in quell’occasione 40 morti di cui 22 maschi e 18 femmine. Tra i morti si annoverano i nomi del notaio Pasquale Insardà, del fisico D. Carlo Antonio Cognetti, del rev. D. Domenico Loschiavo e del rev. D. Francesco Spanò il cui corpo venne trovato tra le macerie solo quattro mesi più tardi.

Gravi i danni anche al patrimonio artistico: distrutti diversi conventi e le cinque chiese nel centro abitato. Dieci anni più tardi grazie all’ operosità della gente, veniva consegnata al culto la nuova chiesa parrocchiale dedicata a San Nicola che portando la data del 1793 è, oggi, una delle chiese più vecchie della Piana di Gioia Tauro ed è anche una delle più ricche di opere d’ arte come l’altare marmoreo d’ imponente maestosità, le due grandi statue raffiguranti Pietro e Paolo e le numerose statue lignee ed arredi risalenti ai secoli XVII-XVIII. Oggi, purtroppo, la chiesa, dopo un restauro “assassino” di qualche anno fa, è stata ripulita e messa al sicuro ma necessita di ulteriori interventi altrimenti rischia di polverizzarsi nell’abbandono e nell’ indifferenza al pari dei ruderi di Borrello il cui territorio ricade nel comune di Candidoni.

     L’ economia del centro è prettamente agricola con produzione di olio, agrumi, latticini e sfruttamento forestale.

     Tra i personaggi che hanno dato lustro a Candidoni vogliamo ricordare: padre Bonaventura Bardasci, ministro provinciale e commissario generale dell’ Ordine dei Minori Conventuali di S. Francesco nella provincia di Calabria Citra ed Ultra, maestro e fine compositore musicale da noi scoperto qualche decennio addietro anche se ricordato per la sua barbarie nei processi dell’inquisizione; Antonio Cantucci anche egli provinciale dei Minori Conventuali e maestro latinista; Domenico Simonelli presente ai moti risorgimentali del 1848; Teresa Cognetta (1895-1996) prima ed unica a tutt’oggi centenaria del luogo e come poeta, cavaliere dell’Ordine al merito della Repubblica, Rocco Giuseppe Tassone ricordando soprattutto le poesie “ Vecchio Paese”  e  “ Commiato ” dedicate a Candidoni. Come storico del luogo è da ricordare Ferdinando Mamone, in campo pittorico Gregorio Simonelli.

     I cognomi ancora presenti: Albanese, Alifraco, Alvaro, Aruta, Barbalace, Bellissimo, Cacciatore, Calzone, Cannatà, Cavallaro, Ciccarelli, Cognetta, Corbo, Cuccione, Di Giglio, Eburnea, Fialà, Fiumara, Frisina, Fruci, Furfaro, Ganino, Garisto, Gatto, Giordano, Gucciardi, Iaconis, Lacquaniti, Lamanna, Lamberti, Larocca, Lentini, Lovece, Loverso, Macrì, Maio, Mamone, Massara, Masso, Mazzitelli, Monea, Montorro, Muratore, Nicolaci, Nocera, Ozimo, Ozzimo, Pavone, Proto, Rachele, Rafele, Riniti, Riolo, Russo, Scarfò, Scarmato, Sibio, Simonelli, Sorbara, Sorrenti, Soverino, Spanò, Tartaria, Tassone, Varatta, Vinci, Vona, Zirino, Zuppardi.

     I cognomi scomparsi: Almaviva, Armenio, Beniamina, Calimera, Callà, Campisi, Capria, Carbone, Catalano, Cavallari, Chiniamo, Crocitta, D’Agostino, De Luca, Distasio, Facciolo, Franzè, Curuli, Gagliardi, Gallo, Gallucci, Golotta, Grillea, Ioculano,  Laccisani, Lamari, Lascala, Lisotti, Loielo, Longo, Luppino, Luzza, Malvaso, Mannella, Marazzita, Micali, Mileto, Monfilier, Paglianiti, Palaia, Parrotta, Pascale, Pasalia, Polito, Primavera, Pompeo, Prossomariti, Quaranta, Raffaele, Restuccia, Riga, Romano, Sarleti, Sarlo, Simonetti, Sofrà, Soraci, Taverniti, Vigliarolo e Zurzulo.

     I soprannomi più comuni: Allampata, a rizza, a tenenta, a topa, barilla, buttazzeru, cacacicca, caneva, cataciu, catalanisa, cerameraru, ceru i timpa, cicca-cicca, cinesi, cipurazza, cipuragghj, coddararu, donnacicca, fischiottu, focumavi, giacca di ferru, giratesta, guccera, locchiuna, lucertera cu dui cudi, mangiaruga, mascialai, mazza, mbumba, misefari, modulu, mulinara, mussu pilusu, mussu stortu, ndanni, neus, nizza, ntrupati, pacchiana, parlicchiara, perbacco, perciapitta, pirria, pistolu, rizzonisu, rollu, ruvasciaru, ruvettu, salinaia, scoquecchiu, sparetta, spicchisi, tabaccu, tamba, taraciccu, tarramotu, teravrasci, tricchiuppi, u giallu, u lepru, u zzoppiceru, ciciiu.

I Caduti: Riolo Giovanni guerra 1911-12/Alvaro Giuseppe guerra 1915-18 / Golotta Giuseppe idem / Lamanna Antonino idem / Luzza Domenico idem / Massara Francesco idem / Riolo Giuseppe idem / Sofrà Giovanni idem / Tassone Francesco idem / Riga Pietro guerra 1936/ Bellissimo Michelangelo guerra 1940-45 / Calmera Filippo idem / Campisi Gaetano idem / Corbo Giacomo idem / Gatto Antonino idem / Gatto Vincenzo idem / Mannella Nicola idem / Malvaso Bruno idem / Montorro Domenico idem / Riolo Giovanni idem / Scarfò Gregorio idem / Simonelli Rocco idem-

 Ben 24 sono stati i Cavalieri di Vittorio Veneto nominati ai sensi della legge 263 del 18.3.1968 dal Presidente della Repubblica tra cui Michelangelo Giuseppe Bellissimo croce al merito di permanenza in campo di combattimento.                                                                                                                                   Patrono di Candidoni è San Nicola ma la festa religiosa principale è San Gaetano che cade il 7 agosto. Tradizione è la sagra della nacatola che si svolge in occasione della festa di S. Gaetano.     Da visitare, oltre la chiesa parrocchiale, quello che rimane del palazzo Golotta, la biblioteca comunale, la Fontana vecchia, il monumento ai Caduti, il Calvario, il Tempio nel vecchio cimitero e i ruderi di Borrello e dei conventi di santa Lucia e sant’ Andrea. Perduto per sempre il bellissimo palazzo Laccisani ( sec. XVI-XVII ). Dal punto di vista speleologico interessante sarebbe una ispezione alla “Fossa di Crudo” e alle vecchie “Carcari”.

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Mercoledì, 01 Maggio 2013 22:00

SAN ROCCO NEI CANTI POPOLARI CALABRESI

- di Rocco Giuseppe Tassone -

            Il patrimonio culturale-popolare delle tradizioni religiose è veramente immenso.

Mercoledì, 01 Maggio 2013 22:00

Alcara Li Fusi

di Michele Cappotto

 

Altitudine:  m.400  s.l.m.

Etimologia: dal greco “Alchar” che significa fortezza o forse anche dall’arabo “Al Qarah”  trasformatosi poi in “Akaret” (fortezza) e, successivamente, in Alcara. Nel 1812 divenne “Alcara Li Fusi" in quanto centro di produzione dei fusi adoperati per la filatura.

Abitanti: alcaresi (2206  unità nel gen. 2009)

Densità: abitanti /35  Km/q

Patrono: San Nicolò Politi eremita ( festa il  3 maggio e 17 agosto)

Ambiente e risorse: Alcara Li Fusi è un centro prevalentemente agricolo. Le colture principali sono i cereali, la frutta, le olive (rinomato è l’olio extravergine di oliva),  gli agrumi e i legumi. La produzione di mandorle, nocciole e fichi viene largamente utilizzata nell’artigianato dolciario. Si registra anche la presenza di allevamenti bovini, caprini, suini ed equini con produzione di eccellenti carni e manufatti caseari come formaggi (provole) e ricotte. Pregiata e rinomata la produzione di miele.
Prestigiosa è infine la tradizionale arte del ricamo e della tessitura artigianale di tappeti locali realizzati con filo di cotone bianco e pezzi di stoffa di diversi colori, ritagliati a striscioline, che prendono il nome di "pizzare".

Personaggi:  San Luca di Demenna (Alcara) nacque nel 920 dai nobili Giovanni e Tedibia.  Fu da subito educato nella fede e nella scienza divina. Appena giunse alla matura età, i genitori lo sollecitarono spesso al matrimonio, ma egli non volle ascoltarli desiderando dedicarsi a Dio. Lasciato il paese natìo, si reco al Monastero dei Padri Basiliani di San Filippo di Agira. Divenuto sacerdote, per sfuggire alle vessazioni dei Saraceni, che avevano conquistato l'isola attraversò lo stretto e andò a mettersi sotto la disciplina di S. Elia Speleota di Reggio. Ma ben presto anche la zona dell'Aspromonte divenne meta delle incursioni saracene, per cui egli prese la via del Nord fino a raggiungere la famosa eparchia monastica del Mercurion, ai confini tra Calabria e Lucania, meta di tutti i santi italo-greci del sec. X. ove fondò il Monastero Basiliano di Carbone (PZ) di cui ne fu eletto Abate.

Si stabilì nel territorio di Noia (Noepoli), dove restaurò la cadente chiesa di S. Pietro e dimorò con i suoi discepoli per sette anni, praticando il piú rigoroso ascetismo e dandosi ai lavori dei campi, sí da cambiare il deserto in giardino. Desideroso di maggiore solitudine, passò nel territorio presso il fiume Agri, dove nel 959 restaurò il monastero di S. Giuliano nei pressi di Armento ove prestò la sua opera di cristiana carità ai soldati feriti nelle battaglie contro gli arabi,  ne fortificò il castello e la chiesa della Madre di Dio, lasciandone la custodia ai propri discepoli. Di qui ebbe origine intorno al 971 il celebre monastero dei SS. Elia ed Anastasio del Carbone, che divenne il quartiere generale di S. Luca sia come baluardo fortificato contro le incursioni dei Saraceni, sia come palestra dei molti miracoli, che egli vi operò.
Qui Luca morí, assistito da S. Saba di Collesano il 5 febbraio 995. Fu sepolto nella chiesa del monastero, dove ebbe culto pubblico. Recentemente in contrada Lemina ad Alcara li Fusi  è stata realizzata una edicola votiva in memoria del Santo. La festa del Santo Abate ricorre il 13 ottobre.

 


 

Storia

 

Le origini dell’attuale Alcara sembrano risalire agli arabi che nell'827 conquistarono il territorio e qui convogliarono le popolazioni sconfitte chiamandolo “Al Qarah” e costruendo un castello (Castel Turio). I Normanni dopo la conquista del borgo lo rinominarono “Alcara”. In questo tempo Alcara fu testimone della vita da eremita di S. Nicolò Politi. Sotto gli Svevi la città godette di un buon governo e di un rilevante sviluppo civile e culturale.

Tuttavia nei secoli a seguire essa subì un lento e continuo decadimento che fu arginato solo grazie alla forza delle proprie tradizioni religiose fino ai tempi dei Borboni. Questi ultimi, nel 1812, aggiunsero al nome della città il termine “Li Fusi” dall'industria dei fusi utilizzati per filare la lana, la seta e il lino. Attiva e sanguinosa fu la partecipazione degli alcaresi ai moti contadini per la rivendicazione delle terre avvenuti in epoca risorgimentale.
Con l'Unità d'Italia Alcara Li Fusi ebbe un sostanziale sviluppo soprattutto dopo la prima ondata di emigrazione verso le Americhe da cui derivò un positivo ritorno di risorse economiche sulla vita del centro.

 

 


 

Beni Culturali

 

La Chiesa Madre è una delle più belle e grandi della diocesi di Patti. Di epoca bizantina sorse su di un antico tempio pagano. E' dedicata a Maria SS. Assunta. Distrutta nel 1490 da un terremoto fu riedificata con absidi e campanile nel 1632. A tre navate, con cinque file di colonne monolitiche, contiene la splendida Cappella di S. Nicolò Politi, eremita (1117-1167), patrono della città, ricca di marmi e di stucchi, ove sono custodite le spoglie mortali del Santo in un’urna d’argento. Nel 1632 i due portali laterali della facciata furono eliminati per dare posto all'adiacente campanile e al portale centrale sormontato da un elegante frontone sul quale è posta un'aquila di pietrae sul muro di fondo un'edicola con una piccola statua dell'Assunta. Sono presenti all'interno un bellissimo organo del 1782, antiche tele dei pittori Castelnovo, Damiani e Tancredi nonché monumenti funebri e bellissimi affreschi.

Il Convento delle Suore Benedettine e l'annessa Chiesa di S. Andrea furono eretti nel 1580 per volontà dell'aristocrazia locale per la monacazione in clausura delle figlie minori. Nel corso dei secoli fu pure destinato ad ospedale e a scuola. Oggi, ristrutturato totalmente, è sede del Museo di Arte Sacra. Le ampie sale espositive contengono pregevolissime sculture in legno a soggetto sacro, arredi di chiese, preziosi paramenti liturgici ricamati in oro argento e corallo, stupendi argenti di scuola messinese e palermitana, fercoli, nonché straordinarie tele di G. Tomasi (Deposizione, Adorazione dei Magi), di S. Rivelli (Madonna tra S. Andrea, San Benedetto e San Placido), le statue lignee della Madonna del Carmelo, di San Simone, un Crocifisso del '400,  la tavola di Antonello da Messina della “Madonna col Bambino tra San Sebastiano e San Francesco  ed il pregevole dipinto di S. Anna col Bambino. Tutto a testimonianza di una cultura religiosa profonda e di altissimo livello artistico. Nell’adiacente Chiesa di S.Andrea, vi è una mostra documentaria su San Nicolò Politi.

La Chiesa di San Michele un tempo fu Cappella dell'adiacente Monastero dei Frati Minori Conventuali fondato nel 1535. All'interno sotto un bellissimo soffitto ligneo si possono ammirare le statue dell'Immacolata e di San Michele Arcangelo. All’interno di un sarcofago gentilizio sono pure custoditi i resti di alcuni cittadini uccisi nei moti risorgimentali del 1860
La Chiesa del Rosario presenta un bel portico del sec.XV. All'interno una statua marmorea di Maria SS. della Catena
e la tela della “Visitazione” di G. Tomasi del 1667.

La bellissima Chiesa di S. Pantaleone, di impianto rinascimentale, oltre a pregevoli tele sugli altari laterali (S.Antonio Abate, San Cosma e Damiano e San Pantaleone (tutte di G. Tomasi 1671) e la Sacra Famiglia conserva, dietro l'altare maggiore, una splendida tavola cinquecentesca con cornice barocca raffigurante la Madonna col Bambino del Damiani (1539). E' pure custodita una preziosa collezione di antichi libri tra cui la “Bibbia De Lyra” del 1487.

La Chiesa di Sant’Elia sorge sulle rovine di un antico tempio pagano dedicato alla dea Fortuna con  accanto il Convento dei Cappuccini. Annessa alla chiesa è la cripta ove venivano appesi i corpi dei frati. Il convento fu quasi distrutto da un incendio nel 1956 che risparmiò solo la chiesa e la biblioteca i cui libri sono ora custoditi nella Chiesa di San Pantaleone.

Del castello (Castel Turio), di origine araba, rimane oggi solo la torre quadrangolare arroccata su di un costone roccioso che è stata ricostruita dopo il terremoto del 1978. Adiacente ad essa la Chiesetta della SS.Trinità. Il Castello doveva avere un impianto rettangolare. Fu pure gravemente danneggiato dal terremoto del 1490.

Tra le case del centro storico offre un impianto tipicamente medievale. Tra le viuzze e le antiche costruzioni si può ammirare il portale della casa di Natale Donadei,  illustre poeta locale seicentesco, celebrato nel suo tempo in tutta la Sicilia, autore del poema epico “De bello Christi” e di altre operette latine; il Cortiletto Arabo, uno dei tanti luoghi che caratterizzano l’abitato originario del X secolo; il quartiere del Calvario ove nei pressi dell'antica chiesetta di San Nicola durante la Settimana Santa si svolgono parte delle funzioni pasquali; la monumentale Fontana Abate, antica ed artistica costruzione barocca dai cui sette getti sgorgano acque freschissime. La lapide contiene una elegante dicitura attribuita proprio al Donadei  ( “le gelide acque che la gente Turia attinse all’antro, Alcara splendida le beve da questa placida fonte”).  Ad essa è  adiacente un antico e caratteristico lavatoio pubblico che con la fonte è stato per secoli punto d'incontro degli abitanti.

Poco distante dal centro esiste un caratteristico mulino ad acqua ancora integro che sorge sul torrente “Stidda”.
Centro di profonda devozione è  l'Eremo di San Nicolò Politi a pochi chilometri dal paese. Costruito verso la fine
del sec. XII racchiude al suo interno la piccola grotta che la tradizione vuole che sia stata la dimora del Santo eremita.
Ogni anno, il 18 agosto, per ricordare il ritrovamento del corpo senza vita del Santo, avvenuto nel 1167, viene celebrata una messa con grandissima partecipazione popolare.
Da citare, infine, è la Chiesetta dell'antico Monastero Basiliano del Rogato, poco fuori città, risalente al 1105 ove si conserva un prezioso affresco bizantino detto Kimesi o Dormitio Mariae  (La Vergine Assunta dormiente) del 1260 circa.

 


 

Tradizioni

 

La "Festa del Muzzuni", che si tiene la notte di S. Giovanni, il 24 giugno è una delle feste popolari più antiche d’Italia. Essa reca evidenti i segni di antichi rituali propiziatori connessi alla fertilità, ma anche all'amore, dove elementi di antichi culti si fondono con quelli della religione cristiana. Essa ha luogo dopo il tramonto nei vecchi quartieri dove le donne decorano una brocca con il collo mozzato (muzzuni) rivestita da un foulard di seta ed adorna con gli ori appartenenti alle famiglie del quartiere.

Dalla sommità della brocca fuoriescono steli di orzo e grano fatti germogliare al buio, lavanda spighe di grano già maturato e garofani. Cosi completato il muzzuni viene portato fuori da una giovinetta del quartiere, che simboleggia, anche nel costume indossato, le antiche sacerdotesse pagane, e collocato sopra un piccolo altarino sistemato tra le “pizzare” ossia tappeti colorati tessuti al telaio. Attorno a questi altarini ci si raccoglie con antiche danze  (la “fasola”, una sorta di tarantella, e il “ruggeri”, nel quale chi canta gira come le lancette dell’orologio), canti e duetti di corteggiamento e di amore, a volte non corrisposto, che generano una atmosfera di profonda e suggestiva partecipazione che si protrae fino al mattino seguente. Il giorno dopo nel pomeriggio si festeggia San Giovanni Battista, anch’egli con la testa mozzata, con una processione che vede la partecipazione di antiche confraternite.

E’ tradizione che in tale giorno si stringa tra due persone la cd. “cumparanza” cioè la promessa di una fraterna amicizia intrecciando il dito mignolo di ciascuno recitando contemporaneamente una breve antica filastrocca.

 

 

Pubblicato in I comuni
Mercoledì, 01 Maggio 2013 22:00

Preghiere della sera nell’usanza calabrese

 

 - di Rocco Giuseppe Tassone -

                     Nella genuina e schietta cultura tradizionale d’un popolo grande importanza rivestono le preghiere e i canti religiosi.

 

 - di Alessandro  Fumia -

 Il gioco del calcio non si sapeva bene quando fosse nato: qualcuno verso gli anni cinquanta, ricordava che a Firenze ai tempi della Signoria, due opposte fazioni si scontravano, nel senso più reale possibile alla realtà, senza esclusione di colpi per vincere un torneo, ritenuto erroneamente, la prima partita di calcio. Se ne desumeva, che gli inventori del calcio fossero stati i fiorentini, e non gli inglesi alcuni secoli dopo.

In realtà, si deve fare un appunto, rivolto agli amici della curva Fiesole. Se un inventore ci deve essere, quello dimorava presso le coste del Peloro, più specificatamente a Messina. Infatti il  29 agosto 1702, si scontrarono due squadre schierate una di fronte all’altra, contendersi una palla, per il ludibrio della folla che li ammirava in estasi.

Presenti e a capo coperto osservavano  il conte di Tolosa sfidare una rappresentativa locale.

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