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Trapani

 

- di Giuseppe Cavarra - 

 

“Culla dei miti”: una delle tante definizioni che si danno della Sicilia. Stereotipo quanto si vuole, ma, andando in giro per l’isola, ci si accorge che non c’è lembo di terra o tratto di mare a cui non sia legato un mito, una leggenda, un rito.
Le leggende hanno tutte un fondo di verità e in più di un caso ce ne danno conferma i ritrovamenti archeologici. Sembra accertato che, molto prima dei fenici, i micenei - e forse prima di loro i cretesi – si spinsero con le loro navi verso occidente, stabilendo approdi permanenti anche in Sicilia. In una nave ritrovata in fondo al mare al largo di Lipari sono stati rinvenuti una settantina di mestoli in ceramica, tutti di produzione micenea (da assegnare quindi all’inizio del II millennio). Durante il banchetto, gli antichi usavano portare il vino in tavola in un grande vaso (era detto “cratère”) dal quale i commensali attingevano con un mestolo il vino da bere versandolo, prima di berlo, nella propria coppa.

Pare che quei mestoli fossero destinati alle isole minori dell’arcipelago eoliano. Altri ritrovamenti hanno consentito di formulare ipotesi abbastanza precise sulle rotte occidentali seguite dagli antichi marinai partiti alla ricerca di preziose materie prime, in particolare lo stagno, necessario per produrre il bronzo in lega col rame.

A giudizio di molti, i miti di Scilla e Cariddi, i due mostri posti l’uno di fronte all’altro sulle sponde dello Stretto, sottintendono i pericoli che la navi minoiche incontravano in un tratto di mare come quello dello Stretto ritenuto dagli antichi il più rischioso tra quelli conosciuti. Così pure la leggenda di Dedalo sottintenderebbe gli scambi culturali fra gli achei e le antiche genti di Sicilia. Come si sa, Dedalo era l’architetto che, fuggito dal Labirinto miceneo insieme col figlio Icaro, giunge volando con ali di cera e piume ad Agrigento, dove il re Cocalo gli affida l’incarico di costruire “grandi palazzi”.


Tra le leggende più antiche c’è anche quella dei Giganti, esseri mostruosi (cento in tutto, ma si conoscono solo trentaquattro dei loro nomi) nati da Gea e dal sangue d’Urano. Pur di origine divina, erano mortali, ma potevano morire solo se affrontati da un dio e da un mortale insieme. La guerra che essi intrapresero contro gli dèi olimpici li vide sconfitti per mano di Zeus che li punì incatenandoli alle pareti infuocate dell’Etna. Efesto, che aveva la sua fucina nelle viscere del vulcano, era aiutato nel suo lavoro di abile fabbro dai ciclopi Argo, Stèrope e Bronte. Ulisse incontra i loro discendenti alle pendici dell’Etna.

Nel Golfo di Catania, davanti ad Aci Trezza, fanno ancora bella mostra di sé i “faraglioni”, i macigni montani che, come immaginò Omero, Polifemo divelse dalle cime dell’Etna e scagliò contro Ulisse fuggitivo. Sulla costa ai piedi del vulcano lo scorgerà Enea scendere cieco verso il mare per andare, appoggiandosi ad un tronco di pino, a lavarsi il sangue che gli sgorga dalla fronte. Quando avverte sul lido la presenza di qualcuno, lancia un orribile urlo. A quel grido tremano le acque del mare, trema spaventata la terra d’Italia. Il vulcano manifesta il suo stupore mediante un sordo boato. Pochi tratti, ma sufficienti per dirci quanto poco sia rimasto del “mostro” omerico nel Polifemo virgiliano.
Una tradizione raccolta dalle vite virgiliane più antiche attesta che Virgilio usava trattenersi a lungo in Sicilia. Dalla “Vita Donati” (VI sec. d. C.) sappiamo che il poeta “soggiornò moltissimo” nelle proprietà che possedeva, oltre che in Campania, anche nell’isola. Il poeta doveva avere dell’isola una buona conoscenza, vista la precisione con la quale descrive i luoghi in cui ambienta le vicende “siciliane” raccontate nel suo poema. Ne abbiamo avuto prova durante un recente viaggio in provincia di Trapani, dove abbiamo avuto modo di constatare che, mentre il III libro dell’ “Eneide” ospita un patrimonio mitico che fa perno sull’ “orrore di forze naturali ostili” (Eolo, Scilla, Cariddi, Poliremo), il V libro, dedicato quasi interamente ai ludi funebri fatti celebrare da Enea in onore del padre Anchise, vede protagoniste pressoché uniche le località di Drepano (l’odierna Trapani) e del monte Erice.

Dopo un anno di indugio a Cartagine, Enea parte alla volta del Lazio che è la meta ultima del suo lungo peregrinare, ma una tempesta lo costringe a ritornare in Sicilia e, approdato «in porto amico», pronuncia commosse parole ai piedi del monte Erice.
Un tempo dalla costa si saliva ad Erice (per i trapanasi è semplicemente “u munti”) per una strada che attraversava una folta pineta; oggi alberi se ne vedono pochi e quelli rimasti fanno fatica a riprendersi dalle offese recate dai vasti incendi che si sono verificati nella zona negli ultimi anni. Da lassù abbiamo “rivisto” il litorale «secco di sterpi bruciati» e, in lontananza, tra il biancheggiare delle onde, il grande scoglio (oggi è il cosiddetto “Scoglio degli Asinelli”) stabilito da Enea come meta della gara nautica. Abbiamo visto giù la “fragile Trapani”. L’espressione è di V. Consolo che aggiunge: «Sembra stretta, quella città, da una parte e dall’altra, da grandi lastre di vetro, risplendenti nel sole, che sono i bassi bacini, le squadrate saline, punteggiate dai coni tronchi dei mulini a vento sopra gli argini».

Abbiamo “rivisto” l’isolotto della Colombaia, dove le colombe sacre a Venere Ericina scendevano e poi, travolte dal desiderio, risalivano per abbandonarsi ad eros.

Erice non conserva molti segni del suo passato, ma, tutto sommato, difende come meglio può la propria identità. Le mura che la circondano sono quelle ciclopiche edificate in pietra viva dai fenici (IV sec.). Il tratto occidentale, che è il più maestoso, è anche quello sul quale si aprivano le tre porte dell’antico borgo: la Porta del Carmine, la Porta Spada e la Porta di Trapani. Ben conservati la cattedrale dedicata all’Assunta (sec. XIV) e il campanile isolato che era in origine una torre di vedetta. Qualche rudere, più immaginario che reale, resta del tempio di Venere Ericina (Virgilio la chiama “Idalia”, forse dal monte Idalia in Cipro). Secondo una tradizione fu Enea a dedicarlo alla madre; secondo un’altra tradizione, quando Eracle passò dalla Sicilia con gli armenti sottratti a Gerione, il re di Erice volle sfidarlo per ottenere qualche bue, ma fu ucciso dall’eroe che, a ricordo dell’accaduto, fece costruire sulla cima del monte il tempio dedicato alla dea dell’amore.
La struttura disadorna del borgo, le case senza intonaco che si affacciano sui cortili, le viuzze che si snodano sul grigio acciottolato ci ripagano delle fatiche del viaggio.

Ripercorrendo la strada per la quale ci eravamo inerpicati per raggiungere l’altura dominante il mare, ritorniamo verso la costa. Le saline e i mulini a vento usati per macinare il sale creano intorno alla “città falcata” un caratteristico paesaggio. L’antico nome della città era “Drèpanon” che significa proprio “falce”: Il nome le venne dal promontorio sul quale sorge la città. La lingua di terra che si protende verso Levanzo ricorda secondo alcuni la falce del dio Saturno, secondo altri il falcetto che teneva in mano Cerere durante la ricerca affannosa della figlia Proserpina rapita da Plutone.


Diodoro Siculo attesta che nell’antichità il tempio di Venere Ericina era venerato e rispettato da tutti. Enea lo «adornò con molte offerte»; i Sicani «onorarono con sacrifici la dea per molte generazioni» e «dotarono il suo tempio con splendidi doni»; i Cartaginesi, «signori di una parte dell’isola, non tralasciarono di onorare la dea in modo straordinario»; i Romani, «impadronitisi di tutta la Sicilia, superarono tutti i loro predecessori in onori verso di lei». «I consoli e i governatori che arrivavano in Sicilia investiti di una qualsiasi autorità - aggiunge lo storico di Agira – quando giungevano ad Erice, deponevano il volto austero dell’autorità, e passavano a scherzi e a compagnie di donne con molta allegria, in quanto erano convinti che solo così rendevano la loro presenza gradita alla dea».

Ultima modifica il Sabato, 08 Ottobre 2016 14:32
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