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Articoli filtrati per data: Venerdì, 26 Aprile 2013

 - a cura di Alessandra Garavini -

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Ciò che sembrava impossibile fino a pochi decenni fa oggi si è realizzato e nelle enoteche d’Italia è facile sentire parlare di Nero d’Avola, anzi direi che è di moda bere un bicchiere di questo rosso siciliano ai pasti. Da qualche anno il Nero d’Avola è entrato nell’immaginario collettivo come il  Barolo per il Piemonte, il Chianti per la Toscana e più o meno tutti sanno che è un rosso siciliano di corpo, non troppo alcolico e abbastanza economico.

 

Lo ritrovate nella lista dei vini di moltissimi ristoranti italiani ed anche statunitensi. Pochi sanno, però, che questo vitigno si chiama anche Calabrese, non per la sua provenienza, ma per via di un’assonanza dal dialetto siciliano Calaurisi da Calea ovvero uva e aulisi di Avola. In effetti il suo territorio di maggior espressione è quello della Sicilia sud-orientale nella zona per l’appunto di Avola, Eloro e Pachino. Fino a pochi anni fa il mosto ottenuto dalle uve di Nero d’Avola veniva commercializzato come taglio per la produzione di altri vini. Lo conoscevano bene i francesi che lo importavano come vino da taglio e lo chiamavano vin mèdecine per la forte gradazione alcolica e il profumo intenso.

 

Le origini si perdono nella notte dei tempi e di Nero d’Avola ce ne sono molte sottovarietà tanto da poter azzardare l’ipotesi di una grande famiglia di vitigni molto simili tra loro. Terreni calcarei, venti costanti, spesso di Grecale e coltivazioni ad alberello sono i presupposti ideali per far scaturire vini di corpo ben sostenuti da un’acidità salmastra mentre la componente tannica, ossia l’astringenza, risulta ben tamponata dalla morbidezza glicerica. Vini nervosi e di carattere che rappresentano la versione più classica e tipica dei Nero d’Avola.

 

In realtà il Nero d’Avola oggi viene coltivato un po’ in tutta l’isola e dai vigneti della zona centrale della Sicilia nacque il Duca Enrico con la vendemmia del 1984; il primo esempio di Nero d’Avola imbottigliato in purezza. Il vino Duca Enrico fece comprendere tutte le potenzialità di questo vitigno che fino ad allora veniva imbottigliato in blend con il Nerello Cappuccio o Mascalese o con il Perricone.

La terza zona di produzione importante è quella nel Trapanese e da queste parti i Nero d’Avola prodotti acquistano note speziate e più esotiche con richiami ad alcuni vini mediterranei a base di Sirah. E’ proprio in queste diversità di espressione che il Rosso siciliano acquista interesse e dimostra quanto possa ben rappresentare i diversi territori vitivinicoli siciliani come pochi altri vitigni autoctoni.

 

Non dimentichiamo che i vini prodotti dal vitigno Nero d’Avola sono ricchi di colore e di polifenoli e fra questi l’ormai famoso resveratrolo: una molecola dal forte potere antiossidante ossia in grado di rallentare i fenomeni di invecchiamento delle cellule del nostro organismo. I pigmenti che danno la colorazione violacea al vino vengono raggruppati in un’ampia classe chimica: gli antociani, anch’essi “spazzini” dei radicali liberi. Quest’ultimi sono molecole molto reattive che produciamo nel nostro corpo, in grado di attaccare le cellule nelle sue componenti anche a livello del Dna, predisponendo ad alcuni fenomeni tumorali. Per questo, oggi molti medici e cardiologi raccomandano di assumere un bicchiere di vino rosso a pasto.

 

Ormai famoso è il fenomeno denominato paradosso francese secondo il quale l’incidenza delle malattie cardiovascolari nelle regioni di Bourdeaux e Borgogna è bassa, nonostante l’elevato consumo di grassi saturi, proprio grazie alla costante assunzione di vino rosso ai pasti da parte della popolazione di queste regioni.

Quindi l’indicazione dei cardiologi è quella di assumere costantemente e moderatamente vino rosso. Ma a quanto equivale il consumo moderato? Per gli uomini la “dose” è di 1 bicchiere di vino rosso a pranzo e 1 a cena, mentre per le donne è di circa la metà ossia 1 bicchiere al giorno.

 

Consiglio di abbinare il Nero d’Avola alle carni rosse ed in particolare alla carne ottenuta dal maiale nero dei Nebrodi: un suino di taglia piccola dal mantello scuro allevato allo stato semibrado sulle montagne dei Nebrodi da qualche anno presidio slow food. La carne ben si presta a grigliate e all’ottenimento di salumi di indiscusso pregio non solo per le qualità organolettiche ma anche per i valori nutrizionali.

La carne di suino nero ha, infatti, un tenore in colesterolo minore rispetto ad altre carni di suino ed inoltre anche il grasso presente contiene una componente di grassi insaturi proprio grazie al tipo di allevamento semibrado praticato.

E allora un brindisi alla nostra salute col rosso siciliano più conosciuto nel mondo!

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Venerdì, 26 Aprile 2013 18:51

Il Vino Faro DOC

 

  

- a cura di Alessandra Garavini -

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“Nulla aggiungiamo e nulla togliamo a ciò che la natura ci dà; noi siamo semplicemente i traghettatori di un’essenza che partendo dalla terra e attraverso la vite si esprime nell’uva”. Dal De Vinis di ottobre 2010.


Sulle colline che si affacciano sullo stretto di Messina in una lingua di terra fra il mar Tirreno e lo Ionio nasce la DOC Faro. Il nome pare derivi dai Pharii; antica popolazione greca che colonizzò le colline del messinese dedicandosi all’agricoltura ed in particolare alla viticoltura. La zona di produzione si concentra in particolare da Capo Peloro scendendo verso sud est lungo la costa Ionica.

 

Quest’area della Sicilia vanta un’antichissima vocazione vitivinicola, il vino era prodotto già in età micenea nel 14° secolo a.C. e nel 1800 veniva esportato in Francia come taglio per i vini di Borgogna e di Bordeaux. Nel 1800 gli ha vitati erano 18.000 oggi in tutta la provincia sono 900, ma proprio in questo picco negativo sta la rinascita di una viticoltura di qualità.
Negli anni 80 la DOC Faro esisteva solo sulla carta, agli inizi degli anni 90, un produttore in particolare, comincia ad imbottigliare il suo vino prodotto in quel fazzoletto di terra collinare che si affaccia sullo stretto di Messina, dove la viticoltura andava scomparendo anche per l’asperità dei terreni e per la pendenza che arriva fino al 70%, imponendo la costruzione di terrazzamenti.

 

Nell’ultimo decennio grazie all’impulso di un pugno di viticoltori che hanno scommesso sul valore di questa DOC, oggi il vino Faro può vantare un Consorzio di tutela che raggruppa 13 associati. E’ una delle DOC più piccole di tutta la Sicilia con 25 ha iscritti all’albo dei vigneti DOC.
La biodiversità dei vitigni autoctoni siciliani è un grandissimo patrimonio, molti di questi non hanno una particolare plasticità e al di fuori di questa ristretta area di elezione non danno grandi risultati. La DOC Faro è l’espressione dell’autoctonia siciliana e proprio per questo ha un grande valore aggiunto, per quel non volersi uniformare nell’espressione gusto olfattiva ai vini di tendenza che ha portato, nell’ultimo decennio, all’appiattimento di aromi, sapori e sensazioni, in un mondo globalizzato anche nello scenario enologico.


I viticoltori che oggi si impegnano nella sua valorizzazione, alcuni anni fa, hanno scelto di non estirpare alcuni vitigni locali per far posto agli internazionali in grado di uniformare la produzione e forse facilitare la commercializzazione, ma di dare una forte spinta ad un’anima locale attraverso il recupero di antichi vigneti. I vignaiuoli del Faro raccontano il territorio in maniera diretta, orgogliosi di farlo, proprio attraverso i vitigni siciliani come il Nocera, il Nerello Mascalese e Cappuccio e altri dal nome poco pronunciabile come Core e Palumba, Acitana, Galatena. Il vino Faro è sicuramente da annoverare fra i rossi importanti, non solo per l’ampio bouquet che ci regala, ma anche per il suo estratto secco che per disciplinare non deve essere inferiore a 22 g/l, la sua acidità superiore almeno ai 5 g/l ci indica un vino fresco che può perdurare nel tempo maturando.


Il processo di vinificazione del Faro prevede la fermentazione del mosto a contatto con le vinacce che dura generalmente oltre i 15 gg. dopo i quali si procede alla svinatura; ossia all’allontanamento delle vinacce fermentate. Questa lunga macerazione del mosto sulle bucce permette l’estrazione di pigmenti e sostanze aromatiche che, insieme alla maturazione del vino di almeno un anno in cantina, sono responsabili dell’ampio comparto gusto-olfattivo che ritroveremo assaporando  un bicchiere di Faro.  


Il vino all’atto dell’immissione sul mercato, secondo l’art. 6 del disciplinare di produzione, dovrà presentare colore rosso rubino tendente al mattone con l’invecchiamento, il profumo sarà delicato etereo e persistente, il sapore asciutto, aromatico e soprattutto caratteristico. Ed è proprio quel persistente e quel caratteristico che lo rendono un vino unico.
Per apprezzarne appieno le sue nuance aromatiche dovremo servirlo in un calice ampio alla temperatura di 18 °C. permettendo, così, una buona ossigenazione e la perfetta liberazione dei profumi.


Fra i possibili abbinamenti ho scelto quelli del territorio: Pesce spada a ghiotta, Capretto alla Messinese, Stinco di maiale al forno e Maialino dei Nebrodi alla brace.
Pesce Spada a ghiotta per 4 persone.
Ingredienti: 800 g di pesce spada a fette, ⅓ di cipolla e 1 costa di sedano finemente tritati, 100 g di olive verdi snocciolate, 500 g di salsa di pomodoro, 4 cucchiai di olio d'oliva, 30 g di capperi dissalati, prezzemolo, sale e pepe q.b.
Preparazione: in una padella fate soffriggere la cipolla e il sedano nell'olio d'oliva, aggiungete poi la salsa di pomodoro, i capperi e le olive, infine il prezzemolo. Disponete nella padella le fette del pesce spada e condite con sale e pepe, fate cuocere per 25 minuti circa a fiamma bassa, bagnando col sugo di cottura.
                                                       

Possiamo abbinare il nostro vino rosso Faro, pur essendo il Pesce spada a ghiotta una pietanza a base di pesce, proprio grazie alla struttura e alla forte componente gustativa e olfattiva che il piatto ci regala.
Queste e altre ricette da: “Fiori e sapori” di Alessandra Garavini edito da Armando Siciliano
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Venerdì, 26 Aprile 2013 18:46

Pasteggiare con le “bollicine”.

 

Con le feste di fine anno arrivano i pranzi ed i cenoni dove i brindisi ci aiutano a sperare che il domani sarà portatore di salute e prosperità.

I buongustai di tutto il mondo considerano il pasteggiare con uno spumante di qualità  un  piacere  raffinato  per  suggellare i momenti più piacevoli e festosi della nostra vita.  Gli spumanti italiani sono eccellenti vini adatti ad accogliere parenti e amici rendendo l’incontro ancoro più gioioso.

Vi sono molti motivi per apprezzare lo spumante a tutto pasto.

Lo schiocco del tappo e l'esuberanza della spuma predispongono alla convivialità e al buon umore, il perlage incessante e la luminosità dei colori sono un piacere per gli occhi.

I profumi inconfondibili ed eleganti predispongono il palato ad un grande piacere. La struttura dello spumante non sovrasta il sapore dei cibi ma li esalta, consentendo di apprezzare al meglio l’abilità di chi li ha preparati.

Le bollicine di anidride carbonica detergono le papille gustative permettendo di assaporare ogni sfumatura gustativa.

Lo spumante sa esaltare i sapori del mare risultando perfetto in abbinamento con carpaccio di pesce affumicato, tartare al salmone, aragosta alla catalana, risotto allo spumante e gamberetti, spaghetti all’astice o agli scampi, branzino al sale e grigliate di pesci, crostacei e molluschi in genere.

Anche i salumi come prosciutto crudo, salame e culatello sono valorizzati dalla raffinata freschezza di un buon bicchiere di bollicine.

L’agnello al forno o il capretto con erbe aromatiche sono perfetti accanto ad un brut rosè.

Ed i formaggi? La morbidezza e la struttura degli spumanti italiani si abbinano anche con scaglie di parmigiano, camembert o formaggi dalla media stagionatura.

Un profumato ed aromatico Demi-sec, infine, può chiudere il pasto servito con i dessert.

Per orientarsi nella enorme offerta che il mercato spumantistico oggi ci offre è bene saper distinguere fra uno spumante metodo classico o champenois ed uno spumante metodo Martinotti o Charmat.

Il metodo Classico prevede una seconda fermentazione in bottiglia del vino per la presa di spuma, ossia per la produzione dell’effervescenza tipica degli spumanti.

Questo processo è lungo ed elaborato così per abbattere i costi ed accelerare i tempi alla fine del 1800 l’italiano Martinotti ha pensato di  realizzare la spumantizzazione, ossia la produzione dell’ anidride carbonica, in autoclave ossia un grande recipiente a tenuta stagna e non in bottiglia.

Oggi ritroviamo ottimi spumanti metodo classico accanto a spumanti metodo Charmat; questi ultimi, spesso dolci, da accompagnare ai dessert e per il più tradizionale degli accostamenti il panettone o il pandoro.

Che fare con la rimanenza degli spumanti quando, persa la loro vivace effervescenza, non sono più bevibili?

Ed ecco un gustoso risotto ottenuto utilizzando gli avanzi degli spumanti brut.

Risotto allo spumante e gamberetti per 4 persone.

Ingredienti: 320 g di riso integrale, 200 g di gamberetti puliti, ½ carota, ¼ di costa di sedano, ½ cipolla, ½ l di brodo di verdure, rimanenze di spumante brut, 4 cucchiai di olio extravergine di oliva e sale a piacere.

Preparazione: tritare sedano, carota e cipolla e rosolare in un filo di olio e un po’ di acqua per circa 10 minuti. Aggiungere il riso e cucinare aggiungendo il brodo di verdure e lo spumante. 5 minuti prima di ultimare la cottura aggiungere i gamberetti e aggiustare di sale. Servire con un filo di olio.

Altre gustose ricette si possono ritrovare nel libro “Fiori e sapori” di Alessandra Garavini edito da Armando Siciliano.

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Venerdì, 26 Aprile 2013 18:44

La Malvasia delle Lipari passito.

 

 - a cura di Alessandra Garavini -

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Si avvicina il Natale e con esso l’aria di festa e la gioiosa attesa per poter condividere con gli amici e i propri cari alcune serate in armonia. Per noi Italiani il Natale è soprattutto il piacere di ritrovarci attorno ad un tavolo ad assaporare le specialità della nostra tradizione gastronomica, brindando alla salute e al nuovo anno. Certamente i dolci non mancheranno, maliziosi tentatori, a vanificare tutti gli sforzi fatti durante l’anno per mantenerci in forma.

 

Ho scelto di accompagnare i “momenti più dolci” del Natale con   un vino da dessert prodotto nelle isole Eolie, la Malvasia delle Lipari passito, che rappresenta uno dei tre vini a denominazione di origine controlla riconosciuti nella nostra provincia. Nell’immaginario collettivo è il vino più rappresentativo della viticoltura tradizionale messinese sia per la particolare tecnica di vinificazione che per la zona di produzione:  l’arcipelago eoliano, a mio parere isole uniche nel panorama italiano.

Un vino di antichissima tradizione il cui nome deriva dal vitigno principale, la Malvasia, importato dai Greci nel 600 circa a.C. secondo Diodoro.

 

Malvasia sarebbe la storpiatura in Veneziano di Monembasia, città dell’attuale Peloponneso. Tra tutte le isole è certamente Salina quella che ha saputo salvaguardare e valorizzare la sua storica anima rurale mantenendo la propria economia basata sulla coltivazione del cappero e la produzione di Malvasia passito. La viticoltura a Salina si può definire eroica costituita da piccoli appezzamenti con filari disposti su terreni scoscesi di origine vulcanica, ricchi di sostanza organica e minerali, nei quali tutte le operazioni sono condotte a mano. Oggi nelle Eolie ci sono circa 90 ha di malvasia; di cui 46 ha iscritti a DOC, si producono circa 1000 hl l’anno dei quali il 70% passito. Sono 20 i produttori che imbottigliano.      

                                           

Le uve sono lasciate appassire sulla pianta nel caso di vendemmia tardiva, oppure raccolte sovramature selezionando i grappoli migliori. Sono poi poste sulle cannizze (lunghe stuoie realizzate con canne locali) sulle quali appassiscono lentamente per 10-20 gg. durante i quali viene reiterata una pratica quotidiana di scannizzamento e incannizzamento; ovvero uomini addetti che spostano le cannizze al sole durante le ore soleggiate e le riparano nelle pinnate (locali areati) durante la notte e nei giorni piovosi. Quando i grappoli sono “appassiti” si passa al diraspamento e alla pigiatura.


Il mosto è messo in botti di castagno o di rovere o di acciaio per farlo fermentare,  seguono 2 travasi chiarificatori a gennaio e a marzo. In questi ultimi anni si è registrato un grande passo avanti dal punto di vista qualitativo della Malvasia passito, grazie ai produttori e al loro grande impegno; frutto della passione per  il loro vino e la loro terra. Dato di grande rilevanza è che oggi oltre il 50% delle coltivazioni sono in regime Biologico.


La Malvasia è definito “vino da meditazione” forse perché con un bicchiere di questo nettare a fianco davanti ad uno strepitoso tramonto, come solo alle Eolie si può ammirare, possiamo pensare a come questi momenti di “trascurabile felicità”, siano invece espressione della bellezza del nostro mondo ed io aggiungo del nostro bel Paese. Possiamo sicuramente affermare che questo vino rappresenta una mirabile sintesi del perfetto equilibrio fra Natura, Uomo e Tecnica.
E allora dovremo degustarlo col giusto bicchiere ed alla giusta temperatura: 10-12 °C, per apprezzarne appieno tutte le nuance gusto-olfattive.

 

 Il calice sarà piccolo, corto e panciuto con l’apertura che tende a restringersi per concentrare al massimo gli intensi profumi e gli aromi di frutta candita , uva passa, frutta esotica e sciroppata, frutta secca, confetture, miele e fiori appassiti.
Lo accompagneremo con il Pandoro al cioccolato o ancor meglio con i dolci tipici della tradizione Eoliana:  

 

i nacatuli a base di acqua di rose e mandorle o i giggi ricoperti di vino cotto, o ancora con le casatedde a base di fichi secchi e uva passa.
Un abbinamento curioso e di tendenza è con i formaggi stagionati; il sorprendente contrasto fra la dolcezza del vino e la sapidità del formaggio ne esalta le caratteristiche organolettiche di entrambi.
E allora un augurio speciale per un “dolce Natale”!

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Venerdì, 26 Aprile 2013 18:42

Il carciofo: il fiore del benessere

  

- a cura di Alessandra Garavini -

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Pianta probabilmente originaria del Nord Africa, conosciuta dagli antichi Egizi, apprezzata dai Greci e dai Romani e ricca di proprietà salutari. Appartenente alla famiglia botanica delle Asteraceae, è diffusa in tutte le zone del Mediterraneo e le sue varietà maggiormente presenti alle nostre latitudini sono le mammole romane, i violetti di Toscana e gli spinosi di Liguria.

 

Il carciofo è, in realtà, un bottone fiorale ed è proprio questa la parte commestibile prima della fioritura: il suo ciclo naturale va dall'autunno alla primavera ed è da sempre un ortaggio apprezzato non solo per il gusto, ma anche per le sue virtù benefiche per l'organismo. È molto ricco di ferro, ha un buon valore nutritivo e fornisce poche calorie; contiene, inoltre, molti altri elementi preziosi come il sodio, il potassio, il fosforo, il calcio, le vitamine A, B1, B2, C, PP, l'acido malico e quello citrico, tannini e zuccheri, questi ultimi in forme e dosi tali da essere innocui anche per i diabetici. Questo ortaggio ha proprietà toniche, calma la tosse e aiuta a purificare il sangue, dissolve i calcoli alla colecisti e ha funzioni disintossicanti soprattutto per il fegato. Lo stelo, le foglie e l'infiorescenza contengono composti fenolici che favoriscono la diuresi  e regolamentano la secrezione biliare.

 

Il carciofo regolarizza anche la funzione intestinale, grazie all'inulina, sostanza che favorisce la crescita dei bifidobatteri, i microorganismi “buoni” della nostra flora batterica intestinale che combattono i bacilli potenzialmente patogeni. Alcuni studi indicano nei polifenoli contenuti nei carciofi quelle molecole che rendono quest'ortaggio particolarmente bioattivo e salutare: queste sostanze si conservano anche dopo aver cotto al vapore quest'ortaggio, a cui si riconoscono pure proprietà antiossidanti e, almeno potenzialmente, antitumorali.

 

Uno studio pubblicato sulla rivista bimestrale “Nutrition and Cancer”, indica, infatti, che i polifenoli del carciofo possono contrastare l'azione ossidativa dei radicali liberi e interferire con i processi molecolari che inducono la trasformazione tumorale. Il carciofo è molto utile anche per favorire la sazietà se consumato prima dei pasti. Per questo genere di sfizioso e dimagrante antipasto questo vegetale contiene solo 32 calorie ogni cento grammi e bisognerebbe mangiare anche il gambo e le foglie, ricchi di salutari sostanze, come la cinarina e gli steroli, utili per tenere a bada il colesterolo LDL o “cattivo”.  Bisogna scegliere carciofi molto freschi, il cui gambo si spezzi con la pressione del dito e non si pieghi.

 

L'organo che trae maggior beneficio dalle proprietà del carciofo è il fegato; la cinarina, i cui vantaggi vengono attenuati dalla cottura (per questo motivo è meglio consumare il carciofo crudo), favorisce la diuresi e la secrezione biliare. Secondo recenti ricerche scientifiche è stato dimostrato che mangiare carciofi contribuisce al benessere del nostro organismo e soprattutto a prevenire diverse malattie. Il carciofo ha proprietà digestive e diuretiche e, grazie alla presenza di inulina permette di abbassare i livelli di colesterolo; inoltre, nel cuore del carciofo è presente un acido clorogenico, antiossidante, che è in grado di prevenire malattie arteriosclerotiche e cardiovascolari.

Il carciofo si consuma crudo o cotto. E’ gustosissimo in pinzimonio dopo aver tolto le brattee (foglie esterne), il cuore si potrà gustare in insalata con olio e limone accompagnato da scaglie di parmigiano. Il carciofo può essere cotto e farcito con pangrattato, prezzemolo o cotto in umido. Per la cottura in acqua occorrono 30 minuti circa.

 

Valore nutritivo per 100 g

Acqua

84%

Proteine

3,5

Grassi

0,2

Zuccheri (inulina)

11,2

Calorie

32

Carciofi trifolati

Ingredienti per 4 persone:

6 carciofi

1 spicchio di aglio
1 limone
100 ml di brodo di verdure
prezzemolo
olio
sale
pepe

Tempo di preparazione: 15 min
Tempo di cottura: 15 min
Tempo totale: 30 min

 

Procedimento

Pulire i carciofi, togliendo le foglie dure più esterne, parte del gambo e tagliare le punte.Tagliare i cuori di carciofo a metà, poi a spicchietti e metterli in una ciotola con l’acqua e il succo di mezzo limone. Nel frattempo in un’ampia padella far imbiondire uno spicchio d’aglio, poi scolare i carciofi, aggiungerli in padella e farli saltare a fiamma viva per un paio di minuti. Abbassare la fiamma, aggiungere il sale, il pepe e il prezzemolo tritato, aggiungere un mestolo di brodo caldo e lasciar proseguire la cottura per 10/15 minuti circa coprendo con un coperchio .Se durante la cottura i carciofi dovessero asciugarsi, aggiungere altro brodo bollente.

Servire i carciofi trifolati decorando il piatto con altro prezzemolo tritato.

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I funghi sono strane creature, a metà strada tra il mondo vegetale e quello animale, infatti costituiscono un regno a se. Al contrario ifunghi sono strane creature, a metà strada tra il mondo vegetale e quello animale, infatti costituiscono un regno a se. Al contrario delle piante, non hanno clorofilla e quindi possono vivere anche senza luce. Il fungo deve trarre le sostanze necessarie alla sussistenza da materiale organico già elaborato e per questo cresce sul legno in presenza di humus e umidità, si propaga attraverso le spore che crescendo sviluppano il micelio formato da fini filamenti.

 

I funghi sono conosciuti dalla notte dei tempi e hanno la triste reputazione di poter provocare la morte. Delle migliaia di specie note, tuttavia, solo un numero ristretto può considerarsi davvero velenosa, per contro esistono numerose specie in grado di causare effetti spiacevoli come diarrea, disturbi gastrointestinali e vomito, si raccomanda, pertanto, di non consumarli se non si conosce esattamente la commestibilità.

 

La grande famiglia dei funghi comprende anche muffe e lieviti. Ne esistono oltre 5000 specie e solo l’1-2% sono velenosi, mentre molti sono utilizzati quali agenti della fermentazione (Saccaromicies cerevisea) o a scopo officinale. Anche se la maggior parte dei funghi sono commestibili pochi sono veramente gustosi, una ventina di specie, tra queste il boleto, il pleurotus, lo shitake, il tartufo e il prataiolo. I funghi che finiscono in pentola non sono molti, alcuni dei quali selvatici, come i porcini, altri invece coltivati, come gli champignon.

I funghi sono formati per il 90% circa di acqua, sono privi di grassi e perciò hanno pochissime calorie (20-30 per etto), sono ricchi di potassio e vitamina B2, contengono proteine vegetali (3-6%) e zuccheri (4%).

 

Sono versatili in cucina; nella preparazione si deve evitare di lasciarli a bagno, quindi si devono lavare rapidamente in acqua corrente, poi scolarli e asciugarli con un panno o con carta assorbente. Per utilizzare i funghi secchi è necessario tenerli a bagno 10-15 minuti. Si usano spesso come condimento aggiungendoli ad antipasti, insalate, zuppe, risotti, pasta ed anche sulla pizza. Per trarre il massimo del sapore è preferibile unirli alla pietanza che stiamo preparando solo 15 minuti prima del termine della cottura.

Per chi ama andare per boschi a cercare funghi può consigliarsi con un esperto.

Ecco alcuni consigli per non rovinare questo prezioso regalo della terra.

 

Usare un cestino di vimini per la raccolta: esso evita che si formi la condensa che potrebbe rendere tossici anche i funghi commestibili, e inoltre permette alle spore di diffondersi sul terreno, rendendolo fertile.

Raccoglierli sempre interi, senza strapparli o tagliarli: così in caso di dubbi sulla loro commestibilità un esperto sarà in grado di riconoscerli.

Pulirli prima che si può, eliminando le parti troppo sporche di terra o infestate da bachi, parassiti e insetti.

Non raccogliere gli esemplari che crescono ai bordi delle strade trafficate: i funghi assorbono con facilità le sostanze presenti nei gas di scarico delle auto.

 

Se si vuole conservarli, scegliere solo quelli perfettamente sani e non intrisi di acqua: dopo averli puliti e tagliati a fette, sistemarli su un supporto di legno e lasciarli seccare al sole in modo naturale.

Si possono congelare: pulirli, tagliarli a fette, sbollentarli per 1-2 minuti, e dopo averli scolati e lasciati raffreddare, metterli in freezer a -18 °C.

 

Ho scelto per voi una gustosa ricetta semplice da realizzare, leggera,sfiziosa, rinfrescante e disintossicante. L'azione diuretica dell'uva aiuta l'organismo a eliminare le tossine.

Solo 110 Kcal per porzione.

Antipasto di champignon e uva

 

Ingredienti per 6 persone:

  • 400g di champignon
  • un grappolo di uva nera
  • una mela verde non trattata
  • il succo di un limone
  • olio
  • sale
  • pepe

Preparazione:
Pulite gli champignon eliminando la parte terminale del gambo, pelateli e tagliateli in 8 spicchi. Dividete a metà i chicchi d'uva ed eliminate gli eventuali semi. Private la mela del torsolo e riducetela a tocchetti, senza sbucciarla. Riunite gli ingredienti preparati in una terrina, mescolate, spruzzate con il succo di limone e condite con 6 cucchiai d'olio, sale e pepe e servite.

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Venerdì, 26 Aprile 2013 18:13

La melagrana: un vaccino naturale

 

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Ottobre è il mese della melagrana: i suoi grani sono molto succosi, hanno un sapore asprigno e si possono trasformare in una gradevole bevanda dissetante.

 La melagrana è il frutto del melograno Punica granatum Punicaceae; un alberello probabilmente originario della Persia dove è coltivato da almeno 4.000 anni.

 

Il suo nome deriva dal latino granatum che significa pieno di grani.

In occidente fu largamente consumato fino alla fine del IXX secolo poi considerato sempre meno. La melagrana è citata nella Bibbia e compare in molti miti come simbolo di fertilità.

L’albero del melograno si adatta ai climi temperati adattandosi perfettamente alle condizioni pedoclimatiche della nostra regione. La richiesta dei mercati europei nell’ultimo decennio è in aumento, ciò ha motivato l’attuazione di un progetto, nel Trapanese, che prevede la messa a dimora di piante per la coltivazione.

 

L’albero raggiunge i 6 metri di altezza, ha grandi fiori a trombetta che divengono succosi frutti dopo 5 o 6 mesi. Il frutto ha un diametro medio di 7-8 cm e una spessa scorza non commestibile di un color rosso brillante o aranciato. All’interno una membrana bianca amara e non commestibile delimita 6 sezioni contenenti tanti piccoli grani dalla polpa succosa, acidula e zuccherina molto rinfrescante di colore rosso rosato.

 

I maggiori produttori del mondo sono Cina, India e Iran dove viene consumata in abbondanza.

Valore nutrizionale per 100 g di parte edibile

Acqua

81%

proteine

 

grassi

0,3 g

zuccheri

 

fibre

0,2 g

calorie

68

Grazie al contenuto di vitamina C e antiossidanti la melagrana ha un’azione immunostimolante tonificando anche ghiandole, ossa, cuore e soprattutto i vasi sanguigni.

Ricca di vitamine (A, C e del gruppo B) e di minerali (potassio e fosforo), la melagrana rinforza il sistema immunitario: per questo è auspicabile gustarne anche un paio al giorno in questo periodo, (fra ottobre e novembre), i suoi principi attivi ci preparano ad affrontare i malanni da freddo.

 

Un regolatore ormonale per lui e per lei

Da poco tempo si è scoperto che la melagrana, grazie alla massiccia presenza di antiossidanti e fitoestrogeni, ha un’azione riequilibrante sul sistema ormonale con valenze specifiche nella donna e nell’uomo. Studi recenti hanno confermato la funzione regolatrice della melagrana sugli sbalzi d’umore tipici della menopausa e sul rafforzamento delle ossa. In caso di tumore della prostata, il succo di melagrana agirebbe addirittura da scudo contro le cellule cancerogene: lo rivela uno studio dell’Università del Wisconsin, negli Stati Uniti.

La melagrana depura il sangue

La principale proprietà della melagrana riguarda l’azione su cuore e arterie: grazie al consistente contenuto in flavonoidi è un alimento perfetto per preservare l’elasticità dei vasi sanguigni e prevenire le malattie cardiovascolari. Per un’azione specifica sull’apparato cardiocircolatorio è consigliabile l’utilizzo del succo biologico già pronto, reperibile nei migliori negozi di alimentazione naturale e nelle erboristerie.

 

Come cura, se ne beve mezzo bicchiere alla mattina anche per 2 mesi, ripetendo sempre il ciclo a ogni cambio di stagione. Il succo di melagrana è una scorta di sali diuretici, ciò lo rende particolarmente adatto nelle diete disintossicanti e drenanti.

Aggiungiamo semi di melagrana nei piatti sia dolci che salati per aumentarne la digeribilità. Nelle macedonie di frutta e nello yogurt, per arricchire piatti a base di carne sia freddi, come il roastbeef, che caldi, come arrosti, brasati e cotture al forno.

 

Gelo di melagrana come dessert o da accompagnare a formaggi stagionati o alle torte.

       Ingredienti:

Prendete un recipiente capiente e sbucciate le melagrane, sgranatele avendo cura di eliminare completamente le parti gialle e le bucce in quanto amare. Passate i chicchi con un passaverdure. Dalle melagrane dovreste ottenere un succo del peso di 850 g circa. Filtrate il succo e mettetelo in una casseruola. Al succo aggiungete quello di mezzo limone, lozucchero, la bustina di Fruttapec e la buccia di limone intera, aiutatevi con un pela patate per ottenere solo la parte gialla. Lasciate bollire per 30 minuti. Eliminate la scorza di limone, poi versate il succo ottenuto in vasetti sterilizzati, tappateli e disponeteli capovolti su un piano. In questo modo si formerà il sottovuoto che permetterà di mantenerli a lungo. Rovesciate i vasetti solo quando si saranno raffreddati.

Pubblicato in Nutrizione

 

 - a cura di Alessandra Garavini -

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La calura estiva causa ipersudorazione, spossatezza e anche cali di pressione.

La natura ci viene incontro con i prodotti dell’alveare: ricostituenti naturali grazie ai numerosi componenti racchiusi all’interno.

Per le loro spiccate proprietà salutistiche e farmacologiche il miele, la propoli, il polline e la pappa reale sono da sempre utilizzati nell’alimentazione umana, nell’ambito della medicina popolare e, negli ultimi anni, in maniera sempre maggiore nella formulazione di fitocosmetici ossia di quei prodotti di bellezza preparati  con costituenti di origine naturale.

Il miele

Prodotto alimentare che le api domestiche (Apis mellifera) elaborano dal nettare dei fiori o dalle secrezioni prodotte dalle piante, che esse bottinano, trasformano, con specifiche sostanze proprie, immagazzinano e lasciano maturare nei favi dell’alveare” questa definizione compare nella legge italiana del 12 ottobre 1982 n. 753.

Il miele ha una duplice origine vegetale e animale, infatti è la sostanza zuccherina elaborata dalle api a partire dal nettare dei fiori o dalla melata e nessun additivo può essere aggiunto.

Si distinguono 2 tipi fondamentali di miele: di nettare e di melata. Oltre 300 differenti composti sono stati identificati nel miele: i principali sono zuccheri, acqua, sali minerali, vitamine, acidi organici, enzimi e le loro proporzioni variano in relazione all’origine del nettare o della melata.

Con una buona approssimazione si può dire che i carboidrati costituiscono il 75-80% e l’acqua il 16-17%. Nonostante la concentrazione dei minerali sia al di sotto dell’1% questi sono molto importanti in particolare per l’elevata presenza di potassio, calcio, zolfo, fosforo, magnesio e ferro. Attenzione i mieli più chiari sono quelli con minor contenuto di minerali. Fra le vitamine quelle del gruppo B in particolare sono le più rappresentate.

La frazione zuccherina è importante per l’alta concentrazione di fruttosio circa il 40%, ciò è particolarmente importante per i diabetici che possono dolcificare i loro alimenti con il miele, anche se moderatamente, perché il metabolismo del fruttosio non è dipendente dall’insulina.

Le virtù terapeutiche attribuite al miele dalla medicina popolare sono numerosissime agendo favorevolmente a livello dell’apparato respiratorio, circolatorio, digestivo per la blanda azione lassativa, sul fegato ed anche sulla fissazione del calcio; per questo adatto nell’alimentazione dei bambini. Non dimentichiamoci però che il miele è un alimento glucidico ad elevato potere energetico; 100 g forniscono 320 Kilocalorie; meno comunque del saccarosio o zucchero da cucina che ne fornisce 400. Inoltre il potere dolcificante del miele è superiore a quello del saccarosio quindi ne basta meno per avere la stessa dolcezza. Tra gli alimenti energetici occupa il primo posto nella dieta dello sportivo.

Le caratteristiche organolettiche e nutrizionali non sono le stesse e variano a seconda dell’origine botanica, ubicazione delle piante, clima e natura del suolo in cui si colloca l’alveare.

Miele d’Acacia: lassativo, disintossicante, contro l’acidità di stomaco e antinfiammatorio

   “     di Agrumi: sedativo, cicatrizzante per le ulcere

   “     di Castagno: favorisce la circolazione sanguigna, disinfetta le vie urinarie

   “     di Eucaliptus: antibiotico, antiasmatico, emolliente.

   “     di Cardo: favorendo le funzioni epatiche è detossificante.

La melata di bosco meno dolce del miele è adatto nelle diete ipocaloriche come dolcificante.

La propoli

Gli essudati resinosi, gommosi e cerosi che rivestono le gemme, gli apici vegetativi ed anche le cortecce sono raccolti, elaborati e modificati dalle api mediante le loro secrezioni salivari e con l’aggiunta di cere divengono la propoli. In autunno le api la usano per “cementare” l’alveare e limitare l’ingresso, inoltre la propoli provoca un processo di imbalsamazione e mummificazione degli invasori dell’alveare. Proprio da questa ultima osservazione se ne è intuito il potere antisettico e antibiotico oggi sfruttato nella prevenzione alle infezioni del cavo orale.

Il polline

Le api bottinatrici, dopo aver raccolto il polline dai fiori lo impastano con il secreto delle ghiandole salivari, lo pressano nelle cellette dell’alveare e poi lo utilizzano per il loro fabbisogno alimentare. Vi ritroviamo fattori ad attività antibiotica, ormonale e di crescita. Particolarmente adatto come ricostituente nell’età pediatrica.

La pappa reale

E’ una sostanza secreta dalle ghiandole faringee delle api nutrici. Utilizzata come alimento per i primi 3 giorni di vita di tutte le larve e in seguito solo per l’ape regina. E’ proprio la componente ormonale a favorire lo sviluppo e la particolare vitalità della regina delle api. Utilizzato come integratore di minerali e vitamine.

Ed ecco un dolce semplice e gustoso adatto alla colazione dei bambini e dei diabetici

Torta al miele e yogurt

Ingredienti: 

  • 4 cucchiai di miele millefiori
  • 125 g yogurt bianco
  • 1 bustina di lievito per dolci

Mettete nel mixer l'olio ed il miele e mixate fino ad ottenere una consistenza cremosa. Unite le uova, una per volta, e poi la farina, lo yogurt ed il lievito. Mixate fino a che l'impasto diventa lisco ed omogeneo. Mettete un foglio di carta forno nella teglia. Versatevi il composto.
Cuocere la torta a 180°C per 30-40 min.

Farla raffreddare e, a piacere, ultimatela con una spolverata di zucchero a velo
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Venerdì, 26 Aprile 2013 18:03

La Pasquetta con fave e pecorino Siciliano!

- a cura di Alessandra Garavini -

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Tra i primi prodotti di primavera spiccano le fave novelle, un piatto di fave crude e pecorino o di fave e salame, come avviene in Liguria, è uno dei modi migliori per salutare la bella stagione.

La fava è uno dei legumi di più antico consumo in Europa: per anzianità pare seconda solo alla lenticchia. Si sono addirittura trovate fave tra i resti di villaggi neolitici in Svizzera. Il primo a scriverne fu Omero nell’Iliade e c’è una curiosità legata a Pitagora, il quale ne proibì l’uso ai propri seguaci, forse per motivi religiosi che dipingevano la fava come un cibo impuro o semplicemente perché Pitagora era affetto da favismo, una carenza enzimatica genetica che può portare a crisi emolitiche.

 

Forse per questo motivo il nostro legume è stato per secoli il cibo dei poveri, ed era considerato da molti un alimento tossico, sia fresco che secco.

Le favesono i semi di una leguminosa a fusto eretto, Vicia fava, che cresce in tutto il bacino del Mediterraneo. Sono contenute in un baccello lineare lungo fino a 25 cm, se fresche sono di colore verde, secche di colore bruno e molto dure.

Le fave fresche si mangiano così come sono, o accompagnate da pane e cipolle, salumi e formaggi, come contorno o anche insieme a minestre di verdure.

Le fave secche private del tegumento, vengono bollite senza ammollo preventivo e rammolliscono fino a diventare un purè.

 

La maggior parte di noi ora può davvero gioire di questo prodotto che va consumato appena colto, nel giro di 48 ore. Per questo si presta a un consumo soprattutto locale. Vista la sua diffusione su tutto il territorio nazionale non sarà un problema, quest’anno sembra esserci una buona qualità diffusa, dalla Sicilia passando per la Calabria, Puglia e Lazio, fino al Nord.

 

Secondo un'antica tradizione agraria, nell'orto sarebbe bene seminare alcune fave all'interno delle altre colture poiché questo legume, oltre ad arricchire il terreno di azoto, attirerebbe su di se molti parassiti, che di conseguenza non infesterebbero  altri ortaggi.

I dietologi ci ricordano, inoltre, che tra i legumi, le fave risultano essere meno caloriche (40 calorie per 100 grammi).
Ma attenzione, questi numeri riguardanole fave fresche, perché con quelle secche l’apporto calorico sale vertiginosamente.

In particolare le fave sono ricche di potassio con effetti diuretici e depurativi ed anche di calcio e ferro.

Fra le vitamine sono presenti in buona quantità la A e la C.

 

Importante è la presenza di fibre insolubili che aiutano lo svuotamento intestinale, per questo le fave possono essere sia diuretiche che leggermente lassative.

Acqua

83.90

gr

Proteine

5.20

gr

Carboidrati

4.50

gr

Grassi

0.40

gr

Un modo per assaporare la Sicilia di un tempo è quello di preparare il Maccu;una polenta-minestra di fave secche, sgusciate, fatte cuocere tanto a lungo che schiacciandole (ammaccandole: da qui il nome) si trasformano in una purea densa, da mangiarsi così o con l'aggiunta di pasta.

 

La ricetta del Macco subisce diverse varianti a seconda delle provincie.

Qui ripresento quella pubblicata dal Giornale di Sicilia nel 1968, in occasione delle rievocazioni di antiche pietanze siciliane:

“Maccu: la sera precedente la preparazione della minestra, si sgusciano le fave secche. Il giorno dopo si mettono a cuocere inuna pentola, con poca acqua, a fuoco lento, avendo cura di schiacciarle man mano che vanno cuocendo, in modo da formare una poltiglia. A questa purea si aggiunge tanta acqua, quanto basta per cuocervi la pasta, generalmente “attuppateddi”. Per rendere la minestra più saporita, si ha cura di mettervi dei pezzetti di lardo”.

 

In realtà sembra che il contadino di un tempo non aggiungesse né la pasta né il lardo, ma solo un filo di olio extravergine di olivo crudo al momento di consumarla.

Quale migliore occasione della classica scampagnata di Pasquetta per gustare fave e pecorino? E allora speriamo che il tempo ci assista! Buona Pasqua 

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Venerdì, 26 Aprile 2013 17:56

Una insostituibile fonte di ferro: le cozze.

 - a cura di Alessandra Garavini -

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“Di nero vestite, incrostate, fortemente enigmatiche, se ne stanno lì tenaci e imperturbabili replicate in migliaia di individui che rammentano i personaggi senza volto di Magritte”.

 Da Bibenda n. 37

Nonostante i periodici allarmi alimentari le cozze restano i frutti di mare più amati dagli italiani. La cozza, straordinaria creatura marina, fu classificata  da Jean Baptiste Lamark (1822) come

 Mytilus galloprovincialis perché ampiamente diffusa nel Mare Nostrum già in epoca gallo-romana. E’ un mollusco  lamellibranco poiché respira e si nutre tramite branchie a lamelle capaci di

 filtrare plancton e particellato organico in sospensione. E’ detta equivalvo  per la conchiglia composta da 2 parti ovali uguali nero-violacee all’esterno e madreperlacee all’interno. Una volta

 aperta appare il mantello che  avvolge gli organi interni giallo crema dei maschi e arancio delle femmine, turgido quando l’animale raggiunge la maturità sessuale, momento in cui il

 seme maschile e le uova vengono espulse in acqua affidando la fecondazione al caso. Nascono le larve che giunte alla grandezza di 500 micron (mezzo  millimetro) sono capaci di secernere

 un composto filamentoso cheratinoso detto bisso col quale si ancorano ad un supporto solido per iniziare a  fabbricarsi la propria conchiglia utilizzando il carbonato di calcio naturalmente

 presente nell’acqua di mare. Dopo circa 1 anno raggiungono la taglia  minima per la commercializzazione di circa 5 cm. L’attività sessuale dura per l’intero ciclo vitale di 4-5 anni. La cozza  ama la compagnia prosperando  in colonie di migliaia di individui in lagune e laghi costieri con salinità ottimale tra il 27 e il 30%, temperature non superiori ai 28 °C e condizioni  microbiologiche accettabili.

Il mitile filtra in media circa 1,5 l di acqua l’ora trattenendo non solo i nutrienti, ma purtroppo ove presenti, anche batteri, virus ed eventuali  contaminanti chimici concentrandoli fino a 100- 200 volte. La molluschicoltura in Italia è regolamentata dal D.L. n. 530/1992 che prevede impianti dove  si trovano banchi naturali di molluschi bivalvi, raccolti e venduti vivi.

Consumo crudo? E’ a rischio per molti fattori che diminuiscono molto (non si azzerano) quando i mitili arrivano dopo la raccolta in poco tempo nel  piatto. Il limone esercita una azione  batteriostatica ma non mette al riparo dalle tossinfezioni più comuni quali stafilococchi o salmonella, per non  parlare del vibrione del colera. Una cottura di almeno 15 minuti è consigliabile  scartando gli esemplari non aperti.

La mitilicoltura è una pratica diffusa fin dall’antichità nei laghi di Ganzirri e ne ha caratterizzato per molto tempo l’economia. L’allevamento dei  molluschi riguarda sia il Mytilus  galloprovincialis più semplicemente conosciuta come cozza sia le vongole e, fino al XIX secolo, venivano raccolte anche  le ostriche; pratica ormai  scomparsa. I pescatori appresero il ciclo di crescita dei molluschi dopo aver visto svilupparsi spontaneamente le cozze lungo  i pali conficcati sui fondali per delimitare le zone di pesca nei laghi. L’allevamento è complesso ed il ciclo  dura circa due anni prevedendo lo  spostamento dei così detti stralli, ossia i grappoli di cozze, per ben 4 volte dal lago piccolo al grande e viceversa. Fino agli anni 60-70 la  molluschicoltura  era, in queste zone, un’attività economica fondamentale, e molte famiglie se ne occupavano a tempo pieno. Oggi la situazione è ben  diversa e questa tradizione ha perduto gran parte della  sua importanza quasi scomparendo, i laghi sono minacciati continuamente dall’inquinamento  e certe opere e pratiche degli uomini hanno messo a serio rischio l’equilibrio biologico e  naturale dei laghi.

Una convinzione da sfatare è che le cozze siano molto caloriche infatti apportano circa  100 kcal/100 g. Inoltre, dato che le assaporiamo lentamente,   rappresentano un alimento light per  eccellenza! Questi mitili sono una miniera di sali minerali fra questi il più abbondante è il Ferro presente in 5,8  mg/100 g; quantità rilevante se si pensa che 100 g di carne di cavallo ne  apportano solo 3,9 mg/100 g. Anche l’apporto di colesterolo non è rilevante  come si pensa: circa 50 mg/100 g.Insomma: sono un alimento nutriente e  rinforzante, di cui è un peccato  privarsi! Inoltre avrebbero anche proprietà  afrodisiache!

Per 100 g di COZZE:

energia: 99 Kcal

colesterolo: 50 mg

Proteine: 13,7 g

lipidi: 3,2 g

glucidi: 4,4 g

Le cozze si possono preparare in vari modi; ho scelto le cozze alla marinara per la semplicità di preparazione e per la salubrità del piatto. Occorre tener  presente che le cozze hanno uno  scarto elevatissimo perciò si considera circa 500-700 g con guscio per persona.                                                      

Cozze alla marinara per 4 persone

Ingredienti: 2,5  kg di cozze con le valve, 1 bicchiere di vino bianco secco, 2 cucchiai di olio extravergine di oliva, 2 scalogni, prezzemolo, alloro, pepe in grani e sale q.b.

Preparazione: grattare e lavare le cozze. Tritare gli scalogni e riporli in una casseruola con l’olio, fare soffriggere e poi aggiungere le cozze col prezzemolo e il vino bianco, da ultimo il pepe e il sale. Servire calde.

In abbinamento consiglio un Mamertino bianco fresco.
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