- di Rocco Giuseppe Tassone -
Nella genuina e schietta cultura tradizionale d’un popolo grande importanza rivestono le preghiere e i canti religiosi.
Scorrendo la legislazione vigente sulla difesa e sulla conservazione del nostro patrimonio storicoculturale, ci accorgiamo che essa e a dir poco inadeguata all'ampiezza dei problemi; se poi spostiamo l'attenzione sulla Sicilia, il discorso si complica: ad ogni pie sospinto ci imbattiamo in norme che si aggiungono a norme senza chiarire a sufficienza che - tanto per fare un esempio - una cosa e il controllo e un'altra cosa sono i poteri nei vari campi d'intervento. "Occorre produrre senza inquinare" a uno slogan che, in se bellissimo e condivisibile, rischia di essere pura demagogia se, mentre diciamo che occorre cambiare il modello di sviluppo, nel contempo non ci preoccupiamo di trovare i necessari provvedimenti per "depurare" la dove abbiamo inquinato, "rifare" la dove abbiamo guastato. Fatto sta che, chiudendo un occhio oggi chiudendo un occhio domani, ci stiamo riducendo nella condizione di chi non ha più nulla da difendere e da salvare. In riferimento alla salvaguardia del patrimonio artistico in Sicilia si fa poco per far capire al cittadino cosa c'e dietro i fenomeni che producono gli inquinamenti o dietro un caso di troppo evidente speculazione edilizia. Se non viene informato il cittadino non conosce; se non sa, vuol dire che le istituzioni non hanno svolto nei suoi confronti compiti di responsabilizzazione nemmeno nei casi in cui l'intervento sarebbe improcrastinabile. Nel nostro Paese non si fa molto per istruire senza annoiare, distrarre senza avvilire, informare senza deformare. Non sapendo, il cittadino si interroga sempre meno sui motivi per cui la "cultura" complessiva in cui si svolge la propria vitae segnata da dati negativi quali il burocraticismo e l'inefficienza, per non parlare della "cultura dei favori" che induce sempre più frequentemente a trarre vantaggi - poco importa se grandi o piccoli - dalle istituzioni in cui veniamo a trovarci. Tutto questo e, naturalmente, il contrario del "sistema di relazioni" che dovrebbe garantirci di vivere nella consapevolezza che la Terra è l'unico luogo in cui e possibile vivere. Almeno per il momento, non ne possediamo un altro di ricambio. Purtroppo si tratta di una consapevolezza concettuale che fa ancora fatica a sboccare in prassi quotidiana, in concreti comportamenti individuali e collettivi. Ciò basta per continuare a comportarci come se la natura fosse una sorte di cornucopia che fornisce all'infinito beni da utilizzare. Cosi facendo, stravolgiamo interi sistemi naturali, distruggiamo definitivamente intere specie viventi, dimentichiamo che i padri hanno prodotto beni che noi abbiamo il dovere di difendere e di conservare. Purtroppo il nostro sistema scolastico lascia poco spazio ad una cultura di tipo conservazionistico basata sull'interazione con l' "ambiente" da intendere come città, paese, villaggio, quartiere, territorio. "Informare" e la via maestra per far capire soprattutto ai giovani cittadini di domani che ad eventuali modifiche dell'ambiente talora conseguono avvenimenti a dir poco disastrosi. Con "Turista per un giorno" Michele Cappotto e Rosario Fodale intendono richiamare la nostra attenzione su come si e svolta e continua a svolgersi la vita in 45 Comuni della provincia messinese compresa tra l'Alcantara e Castel di Tusa. Quello che in questo volume gli autori consegnano alla nostra attenzione e un approccio ai singoli ambienti da ogni possibile punto di vista: geografico, storico, ecologico, antropologico, artistico. Nella vita dei singoli gruppi non c'e aspetto lasciato nell'ombra. Quella che gli autori producono e una cultura concreta, basata sull'interazione uomonatura in ogni suo aspetto. Ogni paese "osservato" e un piccolo ecosistema. Un piccolo equilibrio che in esso si rompe può avere conseguenze imprevedibili. "Informare per conoscere" e la via preferita dagli autori per sensibilizzare l'individuo ad assumere un ruolo sempre più attivo. Essere informati non significa che ciascuno di noi può mettersi l'animo in pace quando ha tirato lo sciacquone del gabinetto o ha messo it sacchetto colmo di rifiuti fuori dalla porta. Essere informati significa farsi già parte promotrice, assumere un ruolo sempre più attivo, prendere una posizione ogni volta che dobbiamo ovviare agli errori che noi stessi commettiamo. In definitiva, Cappotto e Fodale vogliono dirci che i beni culturali non sono res nullius. Anche grazie a quei "beni" il pastore che vive nel villaggio sperduto sui Nebrodi e anch'egli dentro la storia. A lui la Costituzione assicura gli stessi diritti di cui gode un cittadino residente a Venezia o a Milano.
Giuseppe Cavarra
|
Ulisse destino di se stesso Poemetto per un atto unico teatrale
Giuseppe Messina: artista a tutto tondo, carismatico, trainante, trasmette con vigore la sua vis artistica a chi lo incontra anche soltanto nella lettura dei suoi scritti o ammirandone la riproduzione fotografica di quadri o di opere scultoree, o nella visione di opere cinematografiche. Egli non si ferma all'ambito ristretto dell'egoismo tipico, a volte, dell'artista, ma espande sapere e conoscenza allargando il suo amore sino a comprendere l'umanità e la sua terra sicula. Dopo aver mietuto allori per il suo operato artistico, nei soggiorni prolungati a Roma e nel Continente (?) è rientrato in Sicilia: isola amata dove egli ora risiede e lavora, cercando di essere un faro luminoso, che coinvolge amici, anziani e giovani, in una sinergia che li vede uniti nello sforzo comune per la materializzazione di vari suoi progetti: alcuni già realizzati, altri ideati e che hanno trovato il giusto apprezzamento finale, come il film "Socrate non può morire" del 2011. Giuseppe Messina ci ha abituati a ricevere i suoi doni di Poesie, Teatro, Cinema, Pittura, Scultura quasi si tratti di lavoro semplice e facile: si Legge, si guarda il tutto senza a volte soffermarci a considerare ciò che di lui si nasconde o è sottinteso, nelle parole, nelle spatolate o pennellate, nello sbozzo di legno e pietra. La sua cultura umanistica profonda lo invita a ricercare nel passato, nei libri del cantore cieco Omero, quella forza civica che deve spingere l'uomo — cosi come fecero Omero e Ulisse — all'esplorazione del mondo, delle ere storiche, dei doveri, ponendo attenzione all'evoluzione dei tempi ed all'educazione dello spirito; soprattutto dell'antica civiltà Greca, di cui egli esalta bellezza e vigoria, ricerca del sapere, conoscenza, amor di patria, che lo inducono a continuare a scrivere del mitico Ulisse, trasportandone vicende e sentimenti all'oggi. E' una lunga poetica narrazione epica e civile: la scrittura gli ha preso la mano: le parole trasbordano; a volte il verso diventa irruente; la melodia del verso diventa recitativo: "poesia visiva" come egli stesso scrive a proposito del suo Poemetto teatrale "Ulisse destino di se stesso". Egli, come Omero e come Ulisse interpreta parti con empito colmo di furia, rimproveri, asserzioni, rivelazione di verità antiche come il mondo sull'iterarsi di inganni, malaffare, ignoranza. La vita va e viene, non chiede cosa vogliamo fare, non ci propone grandezza di pensiero, non regala alcunchè; c'e profonda amarezza nelle parole del Messina; come in Omero e Ulisse, egli si ribella "...La misura a ormai colma / Nell'assordante silenzio..." (12) In esso si dipanano canti, esaltazione, ammirazione per l'Uomo e la civiltà, cui si accompagnano esortazioni a ben agire, scoramenti, invettive contro l'Umanità che sta perdendo il giusto sentire di appartenere all'essere umano. (14) "... Se Dio ha mandato suo figlio, / fallendo nell'unica impresa / di rendere l'uomo più giusto ..." La sua è una pacata sfiducia nell'animo umano, di cui con versi liberi e musicali tocca tutti gli aspetti, come inciviltà, bassezza, crudeltà; ma sa anche esortare l'Umanità a risollevarsi dal guano in cui è sprofondata; si appella alle divinità anch'esse ormai misconosciute e venute meno nel credo degli uomini; ricorda e cita i Grandi della Storia: Socrate, Platone, Gandhi, Tagore, Neruda, rimasti inascoltati o uccisi: e Padre Puglisi "...morto solo / Con il suo Dio che non gli fece scudo"; riversa la speranza nell'uomo-Ulisse, nei giovani, esponendo loro il suo pensiero: "...Speriamo domani / I figli, i nipoti / ancora non nati / abbiano coscienza, / abbiano coraggio / di avere pietà / e di scardinare / i falsi profeti." Ci troviamo di fronte ad un libro ricercato, dalla veste elegante, di una ricercatezza sobria, varia, colorata; "ogni copia del testo a stata arricchita dallo stesso autore di disegni sempre diversi inseriti all'interno, con aggiunta ed integrazione di versi vergati a penna. Si tratta cioè di un libro d'arte in tiratura limitata ad un centinaio di copie, autografate singolarmente, numerate ed intestate all'acquirente".
Roberta Tomaselli Arrigoni
|
Romanzo Photocity Edizioni ed. 2011 € 10,00
RECENSIONE di ROCCO GIUSEPPE TASSONE
“ A Rocco con l’augurio di poter amare queste pagine così come si possono amare le sfumature di una vita”.
Con questa dedica ricevo l’omaggio gradito da parte di un giovane scrittore pugliese Filippo Gigante “Bianco e Nero”. Una frase apparentemente semplice ma vista nel contesto del lavoro letterario donatomi per recensire assume un valore non indifferente, anzi invita la continuità di lettera assaporando ogni piccolo particolare: vivere le sfumature di una vita!
Bene, il protagonista del romanzo del Gigante è un amante, un ricercatore delle sfumature più incisive della quotidianità. Egli, nelle pagine scorrevoli, prende il lettore e lo indirizza verso simboli enigmatici ma che si risolveranno in una realtà vissuta da ognuno di noi. Bianco e Nero è un romanzo giovane, fresco, new age.
Un nuovo modo di scrivere con il linguaggio dei giovani ma con le sfumature dei padri della letteratura.
Il lavoro di Filippo Gigante, pur ricco di episodi di una ragazzo in cerca di una sua entità, si legge velocemente ed il lettore riesce ad impossessarsi dei personaggi, trascinato dal racconto di una vita che si scioglie nel contesto sociale ed umano poco attento alle problematiche giovanili sulle quale il protagonista ci invita a riflettere.
Alex, principale personaggio del libro, parla, parla, racconta, racconta ma alla fine si rivela un’autoanalisi psicologica della propria esistenza e di riflesso il lettore si troverà, per forza di cose, a rivedere la propria quotidianità. Molto spesso nel leggere qualche passo mi sono fermato a riflettere su qualcosa che è accaduto nel mio passato o a sensazioni che consciamente o inconsciamente vorrei vivere oggi o nel futuro. Ognuno di noi nasconde in un cassetto della propria memoria qualche desiderio che per una ragione o anche senza non può o non vuole vivere anche desiderandolo. Il protagonista si domanda qual è il giorno più bella della propria vita: “quello che raccoglie tutti i frammenti che collezioniamo durante tutto il nostro percorso”. E’ un collage dei flash che scalfiti nella nostra mente si ripresentano a piacere dell’anima come il planare delle piume d’oca, elegante omaggio che l’autore fa ai suoi lettori, che carezzano il cielo stellato rendendo un’immagine suggestiva e soave ricca di fede in ascoltazione del creato. Ma anche il risveglio, inatteso ottimismo dell’autore, porta alle gioie della rinascita nel bramato abbraccio della fredda ed arcana madre.
Nel libro non mancano momenti di poesia: “vorrei sedermi sulla riva del mare e contemplare un’alba o un tramonto” che palesano un animo gentile, onesto, reale ma nello stesso tempo surreale in un contesto giovanile con la solidità di un Maestro.
Elegante la veste tipografica che lancia un messaggio immediato a quello che è il contenuto del romanzo.
Filippo che devo dirti? A presto rileggerti in una nuova avventura…
ROCCO GIUSEPPE TASSONE
Gioia Tauro, lì 15 settembre 2012
|
- di Giovani Tomasello -
Il nostro Totò Grillo come ama farsi chiamare, in via amichevole, ha finalmente dato alle stampe il suo primo libro ispirato alla storia vera dei suoi nonni, ambientato nell’immediato secondo dopoguerra, all’interno di una proprietà terriera che il nonno aveva ereditato dai suoceri, lui che era un maestro elementare. Quindi, apparentemente senza alcuna esperienza di come condurre una proprietà, ma con la voglia di imparare. Un affresco dei primi anni cinquanta che dimostra come due esseri come il nonno e la nonna del nostro autore di diversa estrazione sociale, lui maestro elementare, lei proveniente dal mondo rurale, trovarono un motivo di coesione tale da assurgere a punto di riferimento per tutta la Famiglia.
Sul significato e sul messaggio intrinseco alla storia raccontata, abbiamo voluto ascoltare lo stesso Totò Grillo, che così ci ha risposto: “il libro tratta della storia di una famiglia patriarcale composta dai nonni, protagonisti principali della storia, che pur essendo di estrazione sociale differente riescono a divenire un tuttuno e nel contempo essere punto di riferimento per tutta la famiglia.
Quando ho pensato di scrivere questo libro, la mia idea iniziale, che poi ho mantenuto, è stata quella di non voler scrivere una sorta di romanzo o la storia della mia vita, ma fermare gli attimi significativi di un segmento del mio vissuto. Per raccontare ciò mi sono avvalso di flashback che mi hanno permesso di tornare indietro come in un sogno, e il lettore viene avvolto in questo sogno.
Tant’è vero che i lettori sono presi per mano dal protagonista e finiscono con il sentire, assaporare, percepire, gli odori e i suoni di quel tempo passato, durante il quale la vita scorreva in maniera semplice. Certo, il periodo dei primi anni cinquanta, in cui è ambientata la storia, era un periodo particolare perché si usciva dalla guerra, ed ancora erano presenti le privazioni, gli stenti della stessa. Sebbene, questa famiglia avesse superato questo problema, con il possedimento di un appezzamento di terreno grande più di dieci ettari. Per cui il problema del mangiare era quasi secondario. Ho voluto fissare questi attimi belli della mia vita per riviverli uno, dieci, cento, mille volte attraverso il libro. L’ho scritto principalmente per me, per le persone della mia età che leggendo rivivono quel periodo storico, per la mia famiglia, e poi rivolto ai giovanissimi di oggi. I quali hanno tutto, pensano di avere poco, ma quel poco se l’avessimo avuto noi sarebbe stato tutto.
Sostanzialmente il messaggio rivolto a loro è il seguente: i giovani di oggi si devono avvicinare alla natura, alle tradizioni, alla parola data. Oggi non si mantiene mai la parola. Allora una stretta di mano significava più di un contratto. Cosa che oggi non c’è più. La vita allora era legata all’alternarsi delle stagioni, le quali puntualmente ci davano delle scadenze: la mietitura, la raccolta dell’uva, delle olive, ecc… Momenti che erano di aggregazione per tutta la famiglia. Famiglia che era al centro, e fine di tutto. La famiglia allora rivestiva un ruolo importante. Leggendo il libro si ritrova un lessico familiare, come diceva Oriana Fallaci. In tutte le famiglie esiste un lessico. Il parlare arcaico, mi porta ad affermare che ho 150 anni di esperienza. Perché 60 sono i miei anni, più quelli di mio padre che sommati a quelli di mio nonno, mi inducono a rivivere molti modi di essere, di pensare e fanno parte del mio vissuto”.
“Ho visto che nel libro vi sono diversi passaggi dialettali. Perché questa scelta?”
“Siccome il libro dovrebbe introdursi anche nell’ambiente scolastico, quindi nelle mani dei ragazzi delle scuole elementari, il dialetto siciliano si connota e articola in vari modi da una provincia all’altra, da una città all’altra, e addirittura da un rione all’altro, della nostra Regione. Quindi i passaggi dialettali servono a rendere più viva ed epidermica la storia. Ecco perché prima dicevo che il lettore viene preso per mano e viene inserito in questo mondo come se entrasse in un sogno. Perché le frasi dialettali danno una connotazione al libro, che non diventa mio personale, ma di chiunque lo legge, specialmente il lettore di una certa età. Mentre il lettore giovane, ragazzo, viene coinvolto per curiosità. Curiosità di voler conoscere un mondo che non conosce. Ricordo, a questo proposito, che ogni passaggio dialettale ha il suo corrispondente in italiano. Perché dò per scontato che un messinese lo capisca subito, ma uno, ad esempio, di San Fratello o di San Piero Patti, Librizzi, non è un autoctono, per cui gli verrà difficile capire le parole. Ed è semplice anche nei confronti dei ragazzi che così con la traduzione italiana hanno la possibilità di capire subito tutto, e di riflettere sul significato”.
“Il libro sarà presentato alla città?”
“Si. Sarà presentato alla città il prossimo 15 Aprile alle 17, alla Provincia Regionale di Messina, nel Salone degli Specchi. Dove ci sarà l’illustre Prof. Domenico Venuti che alla sua nobiltà di nascita coniuga una nobiltà di animo e una cultura profonda e una grande sensibilità. Devo ringraziare lui in primis che ha scritto la prefazione al libro “Mio nonno”, e poi la Maria Francillo Nicosia, la quale ringrazio per i suoi consigli. E poi ringrazio anche l’amico Rosario Fodale che mi sta dando la possibilità di poter estrinsecare il mio pensiero. Fortunatamente avendo alle spalle queste persone, ricche di esperienza, mi hanno dato la possibilità di tramutare in realtà questo mio sogno nel cassetto”.
“Successivamente, quindi, il libro sarà introdotto nel circuito scolastico?”
“A proposito di questo devo ringraziare l’architetto Salvatore Magazzù, assessore comunale alle Politiche Scolastiche, che ho contattato sempre grazie al chiarissimo Prof. Venuti. Assessore che è rimasto entusiasta del libro, e appoggerà l’iniziativa per essere introdotto nel circuito delle scuole elementari e medie”.
Aggiungiamo che il prossimo 15 Aprile, alla presentazione del libro nel Salone degli Specchi della Provincia Regionale di Messina, a partire dalle ore 17, ci sarà la presenza anche del cantore dialettale Gianni Argurio che leggerà i passaggi in dialetto siciliano, assieme allo stesso autore. Prevista, naturalmente, la presenza del Prof. Domenico Venuti che nella prefazione al libro “Mio nonno”, scrive tra l’altro: “traspaiono nel libro, stati d’animo idonei a far vibrare le corde più profonde dell’io, che coinvolge, estasia e commuove il lettore, nel ricordo dei tempi trascorsi, i profondi significati interattivi dell’uomo con le sue radici in un rapporto simbiotico con la terra.
Lo scrittore sente che i complicati meccanismi della società odierna ci allontanano dalle antiche felicità e ne soffre. Totò Grillo sembra prenderci per mano e condurci dove tutto è pulito, sereno, fresco. Questo racconto è l’immagine dell’innocenza, dell’amore, della bellezza”.
E poi non potevamo mancare noi di Messinaweb.eu a immortalare una serata che ci farà rivivere i bei tempi andati, quando tutto era semplice e ancora, come ci ha dichiarato lo stesso Grillo: “quando una stretta di mano significava più di un contratto”.
Giovanni Tomasello
- di Giovanni Tomasello -
Incontrare il Professore in pensione Salvatore Grillo, già docente presso l’Istituto d’Arte, è stato per noi molto formativo, un personaggio capace di spalancare nuovi orizzonti nel variegato mondo della letteratura dialettale siciliana, di cui è un grande cultore.
Ci ha deliziato, durante la nostra non semplice conversazione con la descrizione di termini, proverbi, modi di dire siciliani. Ad esempio sapete cosa significa la parola “ammatula”? Dall’avverbio “inutile”, riferito alla parola da cui parlare “ammatula”, cioè parlare invano. Riferendosi ad una persona “longo ammatula”, cioè persona fannullona, senza spina dorsale.
Tale avverbio deriva dal greco MATEN che significa invano. Ancora sullo stesso termine: due versi siciliani, riferendosi ad una fanciulla poco bella dicono: “ammatula t’alliffi e fa cannola” che significa “invano ti agghindi”; “bedda cci vò viniri di natura” che significa “bella ci si nasce”.
E per concludere questo piccolo esempio di terminologia siciliana, non poteva mancare il proverbio in dialetto: “dà testa du cunigghiu, nènti mànciu e nnènti pigghiu”!
Il nostro Totò Grillo, come ci ha permesso di chiamarlo, così si è voluto descrivere:
“sono un messinese verace da moltissime generazioni, amo la mia città e amo soprattutto il dialetto messinese. Ma in Sicilia ogni provincia ha il suo dialetto. Mi accorgo che il dialetto messinese rispetto agli altri dialetti si è un po’ diluito rispetto al passato, però ancora in determinati ambienti persistono determinati aggettivi, attributi, modi di dire che rievocano ancora un passato fatto di tradizioni, un passato riferito ad una città che era a misura d’uomo. L’altra volta ad esempio, mi trovavo ad ascoltare la conversazione di due operai, ed uno chiedeva all’altro se il muro resisteva all’impatto del brecciolino, l’altro gli rispondeva in dialetto: “il muro non ha fatto musione”.
Il termine “musione” è un termine bello, è un termine luminoso che ci riporta alle antiche origini del nostro dialetto. Ma ci pensate, dire “musione”, significa che il muro non si è incrinato, si è fermato. Amo scrivere in dialetto messinese sia in prosa che in poesia. Sono famelico nella ricerca di parole, vecchi modi di dire che esaltano con maggiore immediatezza il mio scrivere dialettale. Molte parole ancora me li ricordo, sentite da mio padre. Un vissuto che ritorna. Ho avuto la fortuna, comunque, di nascere in un periodo in cui mi sono agganciato storicamente al passato, perché ancora in quel periodo vivevano persone nate prima del ‘900.
Persone anziane che mi hanno insegnato a parlare, come mio nonno in particolare, in dialetto e ad amare questa “lingua”. Negli anni ’50 e ’60, ricordo che nelle famiglie non si parlava affatto il dialetto. Perché si pensava che parlare in dialetto fosse una carta d’identità per la provenienza della famiglia. Ora non è così, ora è quasi un vezzo parlare in dialetto, intercalando frasi in italiano. Ma se uno parla soltanto in dialetto, non vuol dire che non ha la possibilità di dimostrare, di esprimere un suo concetto, una sua idea. Anzi parlare in dialetto è molto più immediato”.
“Oggi, secondo te, visto l’interessamento anche delle istituzioni che da un paio d’anni a questa parte organizzano “la notte della cultura” nel mese di febbraio, c’è un maggiore fermento culturale in città, oppure no?”
“Quello che ha fregato questa cultura dialettale, sono stati i media, tipo la televisione. La televisione ci ha livellato tutti. Persone, ragazzi che ascoltano la televisione per ore e ore finiscono col dimenticare le loro origini. Voler riprendere il dialetto, e far conoscere i vecchi mestieri, dare una spolveratina a tanti oggetti che sono in casa, tipo la “cafettiera” con una sola “f” napoletana, facendola vedere alle nuove generazioni, in pochi conosceranno la caffettiera napoletana, perché ormai conoscono la “moka” e quella che fa il caffè con le cialde. La memoria storica è importantissima. Quando un oggetto supera i cinquant’anni è già considerato storico”.
“Ha in cantiere progetti letterari?”
“Ho in cantiere un libro che debbo stampare, dal titolo “Mio nonno”. Si tratta di un racconto ambientato a Messina, precisamente in località Castanea, negli anni ’50. Parla di una famiglia tipo dell’epoca, i cui personaggi principali sono il nonno di origine borghese, ormai in pensione, e la nonna proveniente dal mondo rurale.
E’ un libro scritto in italiano, però è intervallato con espressioni dialettali. Vengono riprese tradizioni antiche che si stanno perdendo, come quella di fare la salsa di pomodoro nelle bottiglie in casa. Mette a fuoco la mentalità, l’orgoglio di appartenere al mondo rurale, di appartenere alla sicilianità. Dobbiamo essere fieri delle nostri origini. Sarà presentato prima al Comune sotto l’egida dell’Assessorato alla Pubblica Istruzione, e poi entrerà nel circuito scolastico (elementari e medie). Successivamente sarà presentato “in abito da sera” alla Provincia, probabilmente a Marzo”.
“Altri suoi racconti…..”
“Altri miei racconti sono stati scritti in puro dialetto siciliano dall’inizio alla fine. Ma più che racconti sono delle scenette. Poi altri racconti misti in vernacolo e in italiano. Infine ho un romanzo che si intitola “L’avaro” tutto in italiano. Quest’ultimo in un certo senso si discosta dagli altri. Nessuno di questi è stato mai pubblicato.
Oggi pubblicare un libro per quanto piccolo sia, costa soldi. Il racconto “Mio nonno” sarà il primo che esco dal cassetto, per perdere la mia paternità, e regalarlo al pubblico, facendoglielo leggere per trovare nella lettura un qualcosa che rispecchi il loro vissuto. Contiene cenni biografici e non, mi sono avvalso dell’esperienza di mio nonno che oggi ha 92 anni ed era un notaio. Rispecchia il vissuto mio e della mia famiglia”.
|
- di Filippo Scolareci -
Lo scrittore Anastasio Majolino (medico psicoterapeuta) ha presentato il suo ultimo libro “La scala che si sale scendendo”
ModificaIeri sera all ore 18,20, in presenza di un nutrito gruppo di artisti, nel salone dell’Accademia Internazionale “Amici della Sapienza” Onlus, in via Falconieri 11, si è svolto il quindicinale appuntamento culturale curato e condotto dall’artista Fortunata Cafiero Doddis, la quale ha introdotto, come ospite, lo scrittore Anastasio Majolino (medico psicoterapeuta) che ha presentato il suo ultimo libro “La scala che si sale scendendo” tra religione e psicologia.
Subito dopo il benvenuto dato all’ospite ed a tutti i presenti da parte della prof. Teresa Rizzo, nella qualità di Rettore dell’Accademia sopra citata, il Dott.Majolino ha esplicitato la sua presentazione del libro con molta professionalità e chiarezza, tanto da stimolare molte domande da parte dei presenti, fino a diventare un dibattito interessante e molto garbato, relativo all’interessante tematica che pone in rilievo la centralità del paradosso nel modello di vita dettato dai principi del “Credo Cristiano”, che è simboleggiata dal capovolgimento di senso espresso con immediatezza dal suo titolo.
Altrettanto dal suo sottotitolo che si deduce subito il metodo usato dall’autore. Cioè, mettere a confronto gli aspetti essenziali delle due importanti polarità – religione e psicologia – che coinvolgono profondamente l’essere umano, cercando di trovare punti di incontro tra i due modelli contrapposti, i quali sapientemente coniugati, aiutano l’uomo a scrutare il mistero dell’esistenza, guardare in alto, fare scelte di amore, pensarsi in cammino, praticare virtù umane e cristiane, per tendere alla realizzazione di sogni e progetti.
L’autore stesso, si sente particolarmente coinvolto da questo disaccordo, essendo un cattolico convinto e un impegnato psicoterapeuta. Il fine è quello di trovare conferma alla sua convinzione, fondata su motivi di ragione e di fede.
|
- di Rossella Arena -
“Come Eracle e Iolao”: ricominciare da se stessi
Con la sua nuova fatica letteraria Pasquale Ermio, poeta di origini calabresi, da lungo tempo esponente attivo della vita culturale messinese, regala un viaggio poetico introspettivo alla ricerca della serenità perduta.
Tra sapienti citazioni mitologiche, spunti filosofici sull’esistenza e sussurrati consigli sul bel vivere Pasquale Ermio, dopo la sua prima silloge di successo “Venti in versi”, ci riprova e “Come Eracle e Iolao” ricomincia da se stesso, dalla sua interiorità, tra convinzioni e dubbi. Stavolta, però, il Nostro, raggiunta la piena maturità letteraria, estende la sua prospettiva lirica mirando a un pubblico più esperto. All’ombra del telaio costruito dalla sua prima fatica letteraria, egli infatti dischiude con abile mano, fin dalle prime emblematiche righe, una tela di Penelope che il lettore potrà scorrere avanti e indietro, con lo sguardo acuto dell’intelligenza e le ali del cuore, componendo e disfacendo insieme all’autore ricordi e sensazioni di una intensa vita. Alla fine l’ordito rivelerà a chi ne saprà accarezzare le morbide trame tutti i suoi segreti e il filo d’Arianna celato dal poeta stesso nel labirinto delle sue profonde elucubrazioni mentali, sfavillerà di pagina in pagina, di poesia in poesia, come una cometa che punti disperatamente laddove l’elisir della serenità regala all’uomo i suoi benefici. Ma se il finale è lieto e confortante, come l’autore calabrese ci ha abituato, l’esordio dell’opera “Come Eracle e Iolao” prepara ed alimenta un’atmosfera più cupa, nella quale chi legge è trascinato nei temuti meandri del proprio pensiero, fino a guardare dritto negli occhi l’Idra che è dentro ognuno di noi. Il monito è chiaro, fin dai primi versi di “Senza”, “Russu morti” e“Flash”: su ogni uomo costretto ad incedere in precaria postura sulla cedevole terra bruna e su percorsi tortuosi e accidentati come un equilibrista tra viottoli e mulattiere altrimenti impercorribili, giungerà prima o poi la malattia, la sofferenza, l’insuperabile difficoltà. E la fine dei giorni arriverà greve come spettro in agguato e sorprenderà incredule le umane ed effimere vittime nell’ultimo preagonico battito di ciglia. Il male arriverà e come l’Idra sarà falcidia inesorabile che tronca ogni accenno di germoglio, perfidia di vipera, crudezza di murene fino a fagocitare le carni di ciascuno di noi rinchiudendole nella solitudine di pozzi paralleli a quelli di altri uomini, crudelmente sorpresi in tutta la loro infinita fragilità e solitudine sotto gragnole di ciottoli ed enormi massi, celati da beffardi cartelli che a nessuno è dato saper leggere prima del tempo.
Più avanti, senza parole di fronte al dolore, Pasquale Ermio sospende per qualche lunghissimo attimo i suoi passi lirici; quasi si chiude in se stesso e come in “Elusa guarigione”, in “Oltre il tramonto” o in “Imperfezione umana” finisce per minimizzare, per poi escludere del tutto dal suo eloquio lirico la punteggiatura, quasi a voler rappresentare in modo più evidente anche stilisticamente la perdita di appigli e riferimenti tanto grafici, quanto reali. L’intento però non è abbandonarsi allo sconforto, ma piuttosto cancellare ogni limite all’ispirazione, affinché possa penetrare in libertà nel mistero dell’esistenza, dando ascolto ai suoi più misteriosi sussurri. Inizia così ad affacciarsi nel poeta Ermio e nell’uomo Pasquale la speranza di giungere a percepire intorno a sé tracce confortanti del perfetto disegno divino in mezzo alla “imperfettibilità” umana che tutti ci accomuna e ci condanna, noi uomini grandi e celebri come Napoleone, o solo persone comuni, eroi come tanti, inosservati e anonimi. Ed è proprio in questa amara e realistica presa di coscienza del male e della sofferenza insita nella vita dell’uomo da parte di Pasquale Ermio che la nuova opera si distingue dalla precedente e con forza si afferma come esempio di lirica d’Arte. La visione pessimista del poeta, infatti, si libera dai ristretti vincoli autobiografici, si eleva all’universale e abbracciando la varia umanità trova nell’Idra riassunto e personificazione simbolica, esprimendosi in tutta la sua impietosa essenza in immagini e vocaboli liricamente ricercati, a tratti ermeticamente imposti. Intenzionalmente dispersi tra i versi dell’una e dell’altra poesia, parole essenziali e figure retoriche efficaci danno la suggestione al lettore che esse si autoalimentino, si moltiplichino, si diffondano autonomamente al rinvigorirsi delle riflessioni e dei ricordi del poeta, allo stesso modo come l’Idra nell’immaginario classico centuplica le sue immonde teste. Ma il contrasto tra le due opere finisce qua. E’ facile infatti notare come entrambe, profuse dalla stessa anima ispiratrice, si cerchino l’una con l’altra, come padre e figlio, fino a ricongiungersi e confluire nel confortevole tepore delle persone e dei valori cari al poeta. L’amore, l’amicizia, la solidarietà, gli affetti familiari, i bei ricordi, le piccole gioie quotidiane sono le uniche preziose vie di fuga offerte alla fragile umanità, le uniche ragioni che rinnovano in essa la fiducia nell’aspettare l’alba sin dal canto del gallo.
Il Mito ci tramanda che l’Idra è inattaccabile dalla esclusiva forza divina di Eracle, ma è vulnerabile all’intervento della lungimiranza, delle emozioni più intense e sincere, della fede e della saggezza dell’umano Iolao, che Pasquale Ermio scopre in se stesso e da se stesso ricominciando avanza verso il futuro lasciandosi alle spalle, a beneficio di altri, traccia generosa del proprio poetico ed umano itinerario di salvezza.
|
“D’Infinito Traversare” è un viaggio infinito che scava nei meandri più sottili del mio cuore, scoprendo dolori, gioie, ricordi, emozioni, stati d’animo, e portandoli alla luce dove finalmente possono essere svelati.
E’ così che sono nate le mie poesie: di getto, dettate dalla mia istintività, in seguito a riflessioni sul mondo che mi circonda, su piaghe sociali e fatti di cronaca, o dovute a ricordi prepotentemente riaffiorati.
Sono liriche profonde, sono allegre filastrocche in rima, sono dediche, sono pensieri.
Sono le mie poesie, è il mio infinito.
|
Fu Sergente Garibaldino e Tenente nei Granatieri
“Sergente Garibaldino 1860- Tenente nell’Esercito Italiano 1866 – Negoziante agricoltore 1912”, questo il lapidario testo che identifica un personaggio di origine messinese sepolto a Sant’Arpino (Caserta): Giuseppe MACRI’. A ritenerlo è una targhetta di ottone affissa sulla porta di ingresso del Mausoleo funebre fatto erigere dallo stesso Macrì per custodire le proprie spoglia. Scoprire chi fosse questo “sconosciuto” messinese e cosa avesse a che fare con un luogo lontano dalla sua patria, ci ha impegnato in una ricerca che ha fornito risultati molto sorprendenti ed a tratti davvero “inquietanti”.
Rampollo di una Nobile Famiglia siciliana, Giuseppe è stato il quinto figlio di Silvestro, a sua volta nipote del Vescovo di Lipari e di Patti Silvestro TODARO. Nato in Messina nel 1843, risulta essere il fratello minore di Giacomo, illustre Giurista autore di diversi Trattati e Rettore della Università di Messina. Infervorato da ideali “liberali”, Giuseppe si arruola volontario, ad appena 17 anni, nelle fila dell’Esercito di Garibaldi partecipando alle operazioni della cosiddetta “Unità d’Italia”. Dopo alcuni anni trascorsi nel neonato Regio Esercito Italiano, prima come graduato e poi come Ufficiale, di lui si perdono le tracce. Ricompare, nel 1903, nel paesino campano dove compra un Palazzo Ducale appartenuto alla notissima Famiglia Sanchez De Luna d’Aragona. Nell’agro aversano vive per circa un trentennio dedicandosi all’attività di negoziante di semi. “Misterioso” resta, però, tutto il suo agire, pervaso da elementi massonici ed esoterici. Muore, ottantanovenne, nel 1932, dopo aver provveduto a lasciare in eredità ai poveri tutti i suoi averi. Il suo concetto di “Carità”, ma soprattutto la sua “ossessione” di essere ricordato come “Benefattore” , si ritrovano esplicitate in diversi elementi in marmo lasciati a suo ricordo nel Palazzo e nel Mausoleo funebre. Gli stessi elementi, però, letti con una diversa ottica, ci restituiscono il profilo di un personaggio degno di un feullieton. La sua passione per il paranormale, infatti, lo spinge a compiere azioni i cui risvolti andrebbero interamente indagati per arrivare ad un logico perché. Una sorta di rebus occultato, da lui lasciato a posteri, ci ha portato a scoprire il suo lato forse più inquietante: il “prestito” del suo volto ad una “anomala” ed inconsueta Icona della Madonna della Lettera fatta dipingere sulla sua proprietà santarpinese. Cosa possa aver spinto l’ex garibaldino, che tiene a sottolineare di essere un “italiano da Messina”, ad agire in questo modo l’abbiamo ipotizzato all’interno del racconto da noi pubblicato sul sito Messinaweb.eu. Esortiamo i lettori di questo Magazine a dare un contributo in notizie al fine di riscoprire, a tutto tondo, il personaggio Giuseppe Macrì. Così come ci piacerebbe sapere se, dopo il terremoto del 1908, possano essere sopravvissuti parenti dello stesso e discendenti dai suoi 4 fratelli, Giacomo, Pietro, Giovanni, Paolo Giuseppe. Ulteriori notizie sulla sua vita, infatti, potrebbero contribuire a restituire alla Città di Messina un concittadino “degno di nota” togliendolo dall’oblio nel quale, forse ingiustamente, le vicende della Vita lo hanno finora relegato.
Antonio DELL’AVERSANA
Rosario FODALE
|
|