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“LE TROIANE” DI EURIPIDE; UNO SNODO DELLA LETTERATURA E DELLA CULTURA OCCIDENTALE

- di Prof. Giuseppe Rando - 

Non lascio mai le cose a metà, anche se ho sempre meno tempo. Vorrei, comunque, ritornare sul quel mio parere espresso a caldo, subito dopo avere assistito alla messa in scena, a Siracusa, delle due tragedie di Euripide, Le Troiane ed Elena, per documentare il discorso, che è stato necessariamente sintetico, ma senza alcuna pretesa di esaustività (non sono un grecista).

Soprattutto Le Troiane mi si sono rivelate, quella sera, un’affascinante, grandiosa opera d’arte, meravigliosamente pregna – pur non vantando, di norma, gli universali consensi di Medea – di tematiche universali ed eterne, peraltro risolte in forme stilistiche e drammatiche di eccezionale bellezza. Mentre l’azione tragica – non particolarmente mossa sul piano evenemenziale ma trascinante sul piano psicologico ed emotivo – si svolgeva sulla stupenda scena gremita di donne coperte da stracci (come le vittime dei lager nazisti) e fitta di alberi friulani orbati di rami e foglie (come i troiani privati della vita dai Greci nella Troia distrutta), mi sembrava di avvertire, nelle parole di Ecuba, di Cassandra, di Andromaca, del Coro, intensi precorrimenti del nichilismo («Tutto si perde in un modo o nell’altro») e del pessimismo moderno – di Leopardi e di Nietzsche – nonché l’accorata denuncia della disumanità del potere – di Pasolini –, insieme con l’affermazione dell’assurdità della guerra – che fu di Gandhi e dei pacifisti del Novecento – e con il clamoroso ripudio della violenza sulle donne e sui bambini, condiviso dai cristiani, dai laici illuminati, dai democratici, dai progressisti, dagli uomini veri di ieri e di oggi. Quanto dire: un estasiante bagno nel vasto mare della cultura, della letteratura, dell’arte, della poesia occidentale.

E ciò, in meno di due ore (è uno dei miracoli del teatro e della tragedia greca in ispecie), laddove ci sarebbero voluti mesi, se non anni, per arricchirsi degli stessi contenuti attraverso la lettura di poesie, di racconti, di romanzi, di saggi filosofici, Ah!, se gli italiani, i siciliani, i messinesi frequentassero di più il teatro …

Confesso di essere stato estasiato, di essermi fatto catturare dall’incanto della rappresentazione, come – immagino – le migliaia di spettatori stipati, quella sera di maggio, sulle antiche gradinate e – deduco – i milioni di spettatori che, dal V secolo a. C. ad oggi, assistono a questo mirabile prodotto della creatività umana.

In occasioni come questa, l’eternità appare meno improbabile: noi, ultramoderni, abbiamo gli stessi occhi, gli stessi cuori, la stessa intelligenza e sensibilità dei siracusani che gremivano lo stesso teatro nel V secolo a. C.: noi siamo quegli stessi siracusani, quei greci, quei latini (divenuti poi umanisti, illuministi, romantici, decadenti, moderni, postmoderni) che hanno seguito, nel corso dei secoli, le atroci esperienze di Ecuba, delle sue figlie, di sua nuora, condividendone, con la stessa partecipazione emotiva, le pene.

Ecuba domina, invero, in questo mondo di perdenti ed è personaggio tragico di altissima levatura drammatica: personaggio non statico, ma in divenire, «evolutivo» (Scholes-Kellog), cioè dotato di grande potenzialità di mutamento: sarà tanto cambiato alla fine della tragedia da essere altro da quello che era all’inizio. Il che vanifica, senza meno, i fiumi d’inchiostro che si sono versati sulla presunta staticità dell’opera. Che non è, peraltro, una sola tragedia (o una tragedia con una sola azione), ma un grumo di tragedie: quella, atroce quanto altre mai, di Ecuba, appunto, e quindi, in rapida successione, quelle della figlia Cassandra, della figlia Polissena, della nuora amatissima Andromaca, moglie di Ettore e madre del piccolo Astianatte.

Ecuba è l’asse, il perno, la quercia attorno a cui si agitano le sventure delle congiunte: di ognuna di esse l’ultima regina di Troia condivide gli abbattimenti, gli schianti dell’anima cercando di offrire loro il riparo che può: alla vergine Cassandra, «consacrata a Febo Apollo», ma destinata, paradossalmente, a diventare l’amante da Agamennone, va la materna condivisione del dolore e l’invito a deporre la fiaccola che, «invasata come una baccante», agita, con atroce sarcasmo, in onore di Imene; a Polissena, «sgozzata sulla tomba di Achille», l’urlo dell’inutile compianto («Aaa, figlia mia! Sacrificata! Che azione empia! Aaa! Che morte orribile!»); ad Andromaca, doppiamente profanata da Achille uccisore del marito e dal figlio di Achille che l’ha scelta come schiava, il conforto della speranza («la morte è il nulla, nella vita c’è speranza»).

Ma di fronte al corpicino di Astianatte, figlio di Ettore e di Andromaca, buttato giù dalle mura (per istigazione di Ulisse) nel timore che, da grande, «avrebbe risollevato Troia dalla sua rovina», Ecuba rinnega, di fatto, l’iniziale barlume di speranza rassegnandosi al pessimismo più radicale: «nessuno è mai felice, mai». E vale la pena di considerare che solo il genio leopardiano avrebbe esperito, ventitré secoli dopo, l’ineluttabile presenza dell’infelicità nella vita degli uomini (magari per prefigurarne, infine, nella Ginestra, l’unico superamento possibile nella solidarietà tra gli infelici mortali). Il tema della felicità apparente e dell’infelicità reale attraversa, ad ogni modo, la tragedia da un capo all’altro.

Tragedia di donne, la cui vita si consuma, sulla scena, all’insegna della pena più atroce: la perdita dell’identità. Infatti, dopo la morte di Ettore e la sconfitta di Troia, ognuna di esse non solo viene radicalmente declassata e umiliata dai vincitori, ma diventa, per sadica volontà dei vincitori stessi, l’opposto di quella che era, totalmente altra da sé. Tutte vittime e testimoni, ad ogni modo, dell’assurdità di una vita, nichilisticamente priva di senso: «L’ultima cosa a coronare tante disgrazie è che alla mia età arriverò in Grecia, come schiava, e mi imporranno le cose meno adatte a una vecchia come me: custodire una porta – io che ho partorito Ettore! –impastare il pane; e, dopo coltri regali, dormire a terra con la mia vecchia schiena […]».

Non pare, perciò, casuale che gli ossimori, gli antonimi predominino nelle parlate di ognuno dei personaggi, tutti atrocemente scissi tra sogno e realtà. Si riascolti l’amaro compianto di Andromaca per il suo bambino di cui è stata appena annunciata l’uccisione imminente: «Sventurato il letto, infelici le nozze che mi hanno condotta nella casa di Ettore: il figlio nato da me doveva essere sovrano dell’Asia feconda, non vittima per un sacrificio dei Greci».

E si capisce perché il registro elegiaco (per sottolineare la felicità della vita passata o sognata) si alterni magistralmente, nella tragedia, con il registro dell’invettiva e/o del sarcasmo, per esprimere lo sdegno e il rifiuto del presente.

Tutti corollari, alla fine, dell’opposizione fondamentale di apollineo vs dionisiaco, indicata, com’è noto, da Nietzsche, come matrice della tragedia greca e come fulcro della sua visione del mondo: dionisiaco è certamente il personaggio di Cassandra, che appare «in preda al delirio, come una baccante» (un esplicito riferimento a Le Baccanti è nel capitolo 12 de La nascita della tragedia).

Certo, il greco Euripide, vero, grande scrittore di opposizione, non solo compiange le sventurate vittime della guerra di Troia, ma ne condivide pienamente le ragioni e il tormento, a tal punto da adottare il loro linguaggio di donne – che è corporale, creaturale – osando peraltro proclamare il suo deciso antimilitarismo proprio di fronte agli ateniesi impegnati, nel 415 a. C.(nella primavera di quell’anno, Le troiane furono rappresentate ad Atene), nella lunga guerra contro Sparta: «Certo, chi ragiona, la guerra la deve fuggire». Alla sconfessione della guerra fa da pendant il tema, altrettanto pervasivo nel tessuto della tragedia, della disumanità del potere, quale si configura, in ispecie, nella uccisione di Astianatte, attraverso le parole accorate, materne di Andromaca: «Perché ti aggrappi ai miei vestiti, come un pulcino che si rifugia sotto le mie ali? […] Cadrai a precipizio dalle mura, in un balzo di morte, e senza un lamento lascerai la vita. Fatti abbracciare, bambino amatissimo: come profuma la tua pelle! Non è servito a niente darti il latte dal mio seno quando eri ancora in fasce. […] Bacia, bacia tua madre adesso; sarà l’ultima volta. Stammi vicino, stringimi le braccia al collo, dammi la bocca da baciare».

Unica causa dei mali dei troiani e dell’amaro destino di Ecuba, delle sue figlie, di Andromaca, di Astianatte è, peraltro, nelle Troiane, Elena, la cui condanna è tanto netta quanto irrevocabile dall’inizio alla fine della tragedia: già Ecuba, apparendo sulla scena, l’apostrofa come «sposa odiosa» di Menelao, «vergogna di Castore e infamia dell’Eurota»; quindi Cassandra stigmatizza i Greci che «per inseguire una donna, una sola, e la sua passione, hanno fatto morire schiere di uomini»; e ancora Ecuba geme per avere avuto in sorte tante pene «a causa del letto di una sola donna», mentre Andromaca ribadisce che Paride «per amore del suo letto odioso distrusse la rocca di Troia», e dichiara di disprezzare in Elena ogni donna «che dimentica il marito, e ne prende un altro, e lo ama», rinfacciandole che con i suoi« begli occhi», ha «distrutto le nobili piane di Troia» e augurandole la morte («Possa tu morire!»); di rimando il Coro compiange Troia che, «per colpa di una sola donna e del suo letto infame» ha «perso moltissimi» dei suoi; ed Ecuba infine, dopo che Elena, apparsa sulla scena, cerca di discolparsi e di commuovere Menelao, le scaglia addosso la più serrata e convincente delle filippiche, dimostrando la falsità delle sue discolpe ed esortando Menelao ad ucciderla: «uccidi questa donna e introduci così una legge che valga per tutte le donne: chi tradisce il marito, deve morire». L’avversione a Elena, alla sua colpa di moglie fedifraga, di unica responsabile della rovina di Troia costituisce, invero, un asse portante della tragedia.

Vi si associa, altrettanto nettamente, il tema del relativismo religioso, di probabile ascendenza sofistica («Chiunque tu sia, Zeus, inconcepibile enigma, che tu sia necessità della natura o pensiero degli uomini») e la critica, sempre per bocca di Ecuba, dell’uso deresponsabilizzante della religione: «Non far sembrare stupide le dee solo per mascherare la tua colpa».

Sicché stenteresti a credere che Euripide sia anche l’autore di Elena, la seconda tragedia di “Siracusa 2019”, che è fondata paradossalmente sulla perorazione dell’innocenza della moglie di Menelao.

Di questa tragedia, rappresentata dapprima nel 412 a. C., si apprezza di norma – ma con un salto cronologico e culturale assolutamente irrelato – l’apparizione del tema del doppio nel teatro occidentale (non Elena, ma la sua immagine, la sua ombra, il suo eidolon sarebbe giunto a Troia con Paride, mentre la vera Elena era rimasta in Egitto, ad aspettare, purissima, il ritorno di Menelao, con cui alla fine si ricongiunge). Ma si direbbe che si tratti piuttosto di un escamotage, inventato, per chissà quale resipiscenza, dall’autore delle Troiane, tre anni dopo, per restituire la dignità ad Elena, attraverso un incredibile gioco degli specchi e con una serie di accadimenti improbabili e avventurosi (quasi da cinema hollywoodiano), estranei, comunque, all’essenzialità della tragedia greca (e più confacenti ai moduli che diventeranno abituali nella Commedia Nuova). Come se Elena fosse, in fine dei conti, la parodia delle Troiane piuttosto che una tragedia autonoma. A meno che non si voglia pensare che Euripide abbia voluto accentuare, con Elena, la polemica antimilitarista già pervasiva nelle Troiane: tanto più assurda la guerra, ove si consideri che Paride e i greci sono impazziti per un eidolon, un fantasma di bellezza più che per una donna vera. Ma abbiamo già approfittato troppo del tempo degli amici lettori: ne parleremo forse altrove.

Intanto, ci basti avere dato un modesto contributo alla didattica della letteratura classica, attualizzando forsanche l’aforisma pascoliano, «antico sempre nuovo», e affidando con discrezione il metodo ai colleghi dei Licei, nella convinzione che difficilmente possa capire – e trasmettere alle nuove generazioni – la perennità del classico chi ignora i pilastri della cultura moderna (Marx, Freud, Nietzsche, in primis) e i campioni della letteratura contemporanea: a conferma, se ce ne fosse bisogno, della circolarità dei saperi.

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