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MESSANENSI

MESSANENSI

 

  

- di Giuseppe Cavarra -

 

Un martire assurto a simbolo dell’umanità sofferente
San Sebastiano “il venerabile”

- di Stefania Melina -

 

In occasione del quattordicesimo anniversario della morte della Beata Madre Teresa Di Calcutta,

- di Antonio Dell'Aversana -

  

Nel cuore della verde e serafica Umbria, a Collevalenza, si eleva al cielo, bello ed unico nel suo genere strutturale, il Santuario dell’Amore Misericordioso.

- di Antonio Dell'Aversana -

Il miracolo della Vita. E’ quanto avviene quotidianamente, nel Vico Tre Re a Toledo, una delle numerose venuzze stradali che irrorano i Quartieri Spagnoli, a Napoli.

- di Antonio Dell'Aversana -

 

Potrebbe salire presto agli onori degli Altari il “Servo di Dio” Don Gaetano MAURO,

- di Antonio Dell'Aversana -

 

In un mondo che va a rotoli e su cui i “potenti” si arrogano il diritto di dominare in lungo e largo a proprio piacimento,

Nel prospetto principale del Duomo di Messina, a sinistra della porta centrale e a circa tre metri dal suolo, tra le lesene decorative s'intravede un cartiglio in marmo rosa di Bauso, di venti centimetri di base per cinque circa di altezza che, pur nell'usura del tempo, lascia ancora intravedere queste parole "... Signum. Perfidorum. Iudeorum... ".

Una diffusa credenza popolare, più leggenda che storia, la definisce la Pietra dei Giudei, e ricorda nei seguenti termini un episodio probabilmente mai avvenuto, accaduto in Messina verso la metà del XIV secolo.

A partire dal 1300 le varie comunità straniere presenti in città, erano divenute talmente numerose da organizzarsi in vari qiiartieri, più o meno omogenei. La comunità ebraica, ad esempio, forte di diverse migliaia di cittadini, si era stabilita nell'area urbana oggi identificabile tra la chiesa di Santa Caterina, piazzetta Fulci, via S. Filippo Bianchi, l'Istituto Tecnico A. M. Jacie parte della via Tommaso Cannizzaro, fino all'incrocio con via Cesare Battisti, nei cui paraggi sorgeva un ponte detto appunto Ponte della Giudecca. Gli ebrei si occupavano per lo più di commercio, di finanza, della produzione e della lavorazione della seta ed erano espertissimi nella cura e nel recupero dei legni delle navi corrosi dalla salsedine e da un tarlo marino, il verme rosso.

Ai tempi in cui si svolge la nostra storia, da quelle parti esistevano ancora i resti di un tempio pagano dedicato a Castore e Polluce e gli ebrei ne avevano preso possesso costruendovi sopra la loro sinagoga. Per far fronte alle esigenze della loro comunità, all'interno di uno dei cortili i rabbini fecero scavare un pozzo artesiano che per un po' di tempo diede buona acqua da bere ma col tempo si andò lentamente prosciugando fino a esaurirsi del tutto.

La Chiesa di Messina, però, non vedeva di buon occhio il sorgere e l'estendersi delle comunità religiose non cattoliche e meno ancora di quella ebraica, definita infedele e da sempre accusata di insensato e feroce anticristianesimo. I fedeli cattolici nei confronti degli ebrei, accusati di deicidio, mantenevano un atteggiamento così ostile da riuscire spesso anche provocatorio.

In questo clima di tensione e di reciproco astio e di dispetti, il Venerdì Santo dell'anno 1347 un ragazzo del popolo, secondo la tradizione, passava davanti alla sinagoga cantando ad alta voce il Salve Regina, l'inno preghiera della Chiesa Cattolica. I rabbini diedero a quel canto il significato della sfida e della provocazione. Allettarono perciò il giovane con suadenti parole e lo attirarono all'interno della sinagoga. Quando il giovane fu dentro, i rabbini gli si buttarono addosso e cominciarono a picchiarlo in malo modo. Quindi gli legarono le mani dietro la schiena e all'istante imbastirono un farsesco processo religioso che finì con la sua condanna a morte, in croce, come Gesù, e come questi fu anche ferito al costato, prima di morire. Più tardi, nella speranza di far scomparire la prova della loro colpa, gettarono il suo corpo straziato dentro il pozzo del cortile e ne chiusero l'imboccatura con una pesante lastra di pietra.

Tutto sarebbe passato nel silenzio, se non fosse intervenuto un fatto straordinario e miracoloso. Il corpo del ragazzo, infatti, poco dopo essere stato buttato nel pozzo, cominciò a sanguinare così abbondantemente che il pozzo stesso si riempì di sangue fino all'imboccatura con un rivolo che subito raggiunse la pubblica via.

I passanti, seguendo quella traccia, intuirono che all'interno della sinagoga doveva essere successo qualcosa di grave. Chiamarono perciò lo straticò e questi, assieme ai componenti la corte straticoziale, volle saperne di più. Fece bussare alla sinagoga ma, non avendo ottenuto risposta, fece abbattere la grande porta di legno ed entrò con tutto il suo seguito. Continuando a seguire la traccia del sangue, giunse fino al pozzo artesiano e nel suo interno scoprì il macabro assassinio.

Lo sdegno e il risentimento di tutti gli astanti furono grandi. II martoriato corpo del giovane galleggiava nel suo stesso sangue e lo straticò, con somma pietà, lo fece rimuovere per fargli dare cristiana sepoltura.

I rabbini, in preda al panico, si erano nascosti nelle varie stanze e non uno osò affacciarsi nel cortile per dichiararsi pentito o almeno per scolparsi. Esperite le indagini non fu difficile allo straticò scoprire anche i motivi di quel crimine. Fece allora arrestare tutti gli ebrei presenti nella sinagoga e li fece rinchiudere nella prigione della città, in attesa di essere giudicati da un regolare tribunale. Dell'ignobile delitto fu allora informata la regina di Sicilia Elisabetta, vedova di Pietro II d'Aragona, che in quel momento dimorava a Palermo e che era reggente del Regno in nome del figlioletto Ludovico. Costei inviò a Messina un magistrato che nei confronti dei carnefici e dei loro complici instaurò un processo penale. Da esso i rabbini inquisiti ne uscirono manifestamente colpevoli, sicchè per loro la sentenza non poté essere che di morte. Portati al patibolo, furono decapitati e le loro teste, per qualche tempo, si dice, furono appese ad un muro della sinagoga. Sotto di esse fu murata una piccola lapide con su incisa la frase: " ...Sigreum Perdorum Iudeorum... ". A quel tempo l'aggettivo perfido non indicava malvagità ma scarsa fede.

Oggi una parte di questa lapide è murata nella facciata del Duomo di Messina, a sinistra di chi guarda la porta centrale e, nel volerlo ricordare il nefando episodio, vuole anche essere un monito a quanti nel fanatismo più cieco fanno aberrante sistema di vita.

Il nuovo Museo dell'Opera è il nuovo spazio pensato e realizzato per esporre il Tesoro del Duomo. Volumi sobri, contenitori diafani, nella loro solidità che garantisce protezione e sicurezza, mettono in primo piano i loro contenuti: gli oggetti esposti. Un habitat creato per proteggere e definire uno spazio e per catalizzare l'attenzione sugli oggetti esposti. Questo l'intento dei progettisti nel loro intervento di recupero e ristrutturazione dei locali di via San Giacomo. Il corpo annesso al Duomo, a ridosso della navata rivolta a sud, ospita infatti oggi il nuovo Museo dell'Opera.

Un impianto originario fu realizzato nella prima metà del XIV secolo e risulta caratterizzato da uno sviluppo longitudinale, in cui i rifasci orizzontali bicromi del rivestimento sono interrotti dalla successione delle finestre ogivali bifore; tra di esse una originale è tuttora presente sul lato corto del corpo. I locali erano inizialmente destinati a deposito,. una sequenza di vani a pianta quadrata, di cui alcuni attrezzati con scaffalature in legno che ospitavano il patrimonio librario, si succedevano aritmicamente. Nell'adattamento a Museo l'involucro esterno continua a mantenere la sua identità forte di architettura tardo-medievale armoniosamente contaminata da elementi dell'architettura arabonormanna.

Ogni caratterizzazione esterna trova una sapiente corrispondenza interna, interpretata e riletta secondo i dettami dell'architettura e della tecnologia contemporanea. Le fasce orizzontali bicrome del rivestimento esterno trovano rispondenza nel trattamento interno delle pareti, rivestite con pietra chiara. La scansione ritmica delle finestre ogivali, che definivano la sequenza di vani a pianta quadrata, proietta internamente ì. modulo quadrato nei pannelli in legno laccato a doppia anta contenenti ciascuno una teca centrale.

L'involucro interno configura lo spazio architettonico museale attraverso una precisa definizione dei piani e delle superfici, ciascuna con una propria connotazione sviluppata nel colore e nella struttura dai materiali. Si crea così un effetto di raffinata sobrietà e delicata eleganza.

Due ambienti a pianta rettangolare, si sviluppano su due livelli. Una scala autoportante in acciaio cromata li collega ancorandosi ulteriormente ai due setti murari e sembra annullare il suo peso sno dandosi leggerissima nella sua incontrastata solidità, in un gioco di lucentezza ed ingranaggi a vista Colori, struttura e consistenza dei materiali - la pietra, l'argilla, l'acciaio, il vetro - si alternano in un gioco di tenui riflessi ed opacità, e creano effetti di sottile contrasto. L'illuminazione puntiforme a fibre ottiche proveniente dall'alto del controsoffitto azzurro illumina di luce soffusa tutto l'ambiente, così come la luce naturale che filtra all'interno oltrepassando le fessure degli elementi oscuranti. Il pavimento in cotto siciliano colora di terra e dà calore allo spazio e attenua, smorza, con la sua rugosità, ogni eccesso di chiarore.

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