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- di Marcello Crinò -

 Nella notte tra il 5 e il 6 gennaio, durante il maltempo che ha portato anche ad una fitta nevicata, abbastanza insolita per Barcellona, un fulmine ha colpito la parte sommitale del campanile posto sul lato destro della chiesa dei Basiliani, nel quartiere Immacolata. Il fulmine ha divelto la croce in ferro, parte della cornice di coronamento del campanile e la copertura a tegole. Il danno è stato  prontamente  segnalato gli abitanti del quartiere alla stampa locale, e subito si sono intrecciate le reazioni e i commenti sullo stato di abbandono in cui versano la chiesa e l’adiacente convento, costruiti nella seconda metà del Settecento.

Il convento è chiuso, inaccessibile, e la chiesa è sostanzialmente chiusa al culto, dopo aver subito numerosi danni e furti al suo interno. Inoltre al momento non è possibile accedere neanche al cortile antistante perché recintato dal cantiere per i lavori in corso di una strada di collegamento con la via Leopardi.  Gli abitanti del quartiere si sono subito mobilitati per chiedere alle Autorità competenti gli interventi di messa in sicurezza del complesso monumentale, propedeutici ad un restauro definitivo che si attende ormai da troppi anni.

Il sindaco Roberto Materia giorno 7 ha emesso una nota, pubblicata sul sito web del Comune, dove si legge fra l’altro che si tratta di un “sito di notevole rilevanza storico-culturale, patrimonio della comunità barcellonese“, e “che questa Amministrazione, oltre a completare le procedure e fare avviare i lavori inerenti la riqualificazione del quartiere Immacolata, ormai in via di conclusione, ha anche dato mandato ai progettisti incaricati di provvedere al completamento del progetto esecutivo per la ristrutturazione del monastero dei Basiliani, il quale, a breve potrà essere inviato alla Regione Siciliana per farlo rientrare nella programmazione 2014/2020”.

E prosegue: “Non v’è dubbio che il complesso monastico dei Basiliani paga anni di abbandono e di incuria al pari, purtroppo, si altri siti d’interesse storico e culturale, ma altrettanto indubbio è che l’attuale Amministrazione sta attivando in poco tempo tutte le procedure possibili per recuperare il tempo perduto da altri”. La nota si chiude con una buona notizia: “Per quanto riguarda il danno subito dal campanile, si provvederà con immediatezza alla sua messa in sicurezza”.

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Nota storica sul complesso monumentale dei Basiliani.

L’architetto siciliano Giovan Battista Vaccarini (Palermo 1702-Milazzo 1769), nella qualità di Architetto della Deputazione del Regno, nel 1748, durante sopralluoghi in provincia di Messina, si recò anche nella frazione Gala di Barcellona, presso l’antica sede del monastero basiliano. I monaci, che avevano subito danni alle loro costruzioni a seguito di smottamenti del terreno, decisero di lasciare quel luogo per trasferirsi nella vicina città in via di formazione. A quanto pare fu proprio il Vaccarini a predisporre una serie di “istruzioni” o “capitoli” per i muratori che sarebbero stati ingaggiati per la costruzione del nuovo complesso monastico. E’ sostanzialmente l’appalto del 12 settembre 1749 ricordato dallo storico Filippo Rossitto (Filippo Rossitto, La città di Barcellona Pozzo di Gotto, Crupi, Messina, 1911, p. 540), senza nominare il Vaccarini. Inoltre esistono degli elaborati progettuali, custoditi nell’Archivio di Stato di Palermo, attribuibili all’architetto messinese Francesco Basile (Ecclesia Triumphans, architetture del Barocco siciliano attraverso i disegni di progetto, XVII-XVIII secolo, catalogo a cura di M. R. Nobile, S. Rizzo, D. Sutera, Edizioni Caracol, 2009, pp. 125-127), forse da mettere in relazione ad un progetto del Vaccarini, per la costruzione del nuovo complesso monastico in contrada Faì, cioè nel quartiere Immacolata, databili tra il 1769 e il 1775. Il monastero basiliano, costruito tra il 1776 e il 1791, rispecchia in buona parte questo progetto. Le informazioni relative al ruolo del Vaccarini nella costruzione del complesso basiliano sono frutto del lavoro dello storico dell’arte americano Erik H. Neil, il quale ha redatto una scheda per il catalogo della mostra Ecclesia Triumphas, tenuta a Caltanissetta nel 2009 (Ecclesia Triumphans,…, p. 125) dove sono riportati anche i disegni del Basile, che mostrano come il progetto originario fosse costituito da due corpi di fabbrica con corte interna e chiesa a pianta ovale al centro. In corso di esecuzione furono apportate delle modifiche: si realizzò un solo corpo, con i prospetti rispecchianti abbastanza bene il progetto originario, mentre la chiesa a pianta ovale fu modificata, sia in pianta che in prospetto. Sappiamo che il prospetto fu realizzato da Giuseppe Chindemi, poiché l’autore appose la sua firma e la data sulla parte sommitale del retro del campanile sul lato destro: “Gioseppe Chindemi fecit 1791” (cfr.: Pietro Genovese, in “Il Punto”, mensile edito a Milazzo, maggio 1979). Il convento è una grande costruzione a corte, che nel corso del tempo è stato adibito a sede del Liceo classico Luigi Valli, poi di altre scuole ed anche della Pretura. Il forzato abbandono definitivo del monastero da parte dei monaci nel 1866, a seguito delle leggi di soppressione degli ordini religiosi, favorì il degrado della chiesa e la spoliazione di gran parte degli arredi sacri, della biblioteca dei monaci e di alcune opere d’arte, come il ritratto del Conte Ruggero e il ritratto dell’Abate Eutichio Ajello (1711-1793). Per molti anni la chiesa rimase abbandonata e resa inaccessibile con le tre porte d’ingresso murate. Negli anni Cinquanta una martellante campagna di stampa e una lettera firmata da un gruppo di docenti del Liceo Valli e inviata alla Soprintendenza, sollecitarono il restauro dell’importante sacro edifico, cosa che avvenne in varie fasi negli anni Sessanta e Settanta, permettendone la riapertura al culto nel 1969. Fu rifatto il tetto, che nel frattempo era crollato, ma senza il controsoffitto a volta, e ricostruita in cemento armato, con una scelta non molto felice, la cantoria originariamente il legno. Il prospetto della chiesa era arricchito da un prezioso tondo in marmo del XVI secolo attribuito al Gagini, proveniente dal vecchio monastero di Gala, e sottratto furtivamente da ignoti nell’estate del 1991. All’interno si trova, murato in un vano, un coperchio di un sarcofago in marmo, raffigurante un personaggio sconosciuto. Le pareti della chiesa sono affrescate con scene della vita di San Basilio, e nell’altare è posta la statua della Madonna di Tindari, analoga a quella custodita nel Santuario omonimo, opera realizzata nel 1925 dallo scultore barcellonese Matteo Trovato. I Basiliani ci hanno lasciato pure un dipinto su tavola del periodo tardo bizantino raffigurante San Nicola.

 

 

Messina 2 maggio 2004 pre Annibale viene deposto nella Cripta del Santuario.

Vi mostriamo  le foto.

 

 

- di Nino Algeri -

Nu contadinottu di la Castania

pi ccattari roba ‘n città vinia

juntu ‘nte vicinanzi di la Giustra

vitti di miluna ‘na bedda mostra.

Pi spiari, s’avvicinau curiusu

nun sapennu di ddi palli l’usu

‘u fruttaiolu, scattru e birbanti

capìu subbitu chi era ‘ngnuranti.

‘U castanotu, cu l’occhi ffruntusi,

ci dumannau ch’eranu ddi cosi

u giustrotu c’’a risposta pronta

ci dissi lestu:< ova i jinenta>

Dui si nni ccattauu ‘i ddi muluna

pi lu prezzu litigau pi ognuna

‘i misi ‘a tracolla ‘nta sacchina

e pigghiau ‘a strada d’’a cullina.

A mità via ci scappau un bisognu

pusò ‘a sacchina, si guardau ‘ntornu,

pi sutta ‘i muluna ruzzulianu

contru ‘na petra granni si spaccanu.

‘U castanotu spiranzusu seguìa

‘u ruzzuliamentu di dda sacchina.

iddu, cu l’occhi firmari ‘a vulia

da petra granni quarchi metru prima.

In carchi modu ‘i vulia sarvari

pi stu motivu si misi a gridari

di na troffa a petra dda vicinu

du cunigghia galoppannu scappanu

Appressu ci curriu pi li pigghiari

pi putirili ‘nta stadda nsirrari

i cridìa du putri appena nati

di ddi ova a matina ‘ccattati

 

- di Lillo Busà -

Un pomeriggiu senza ventu,

pi Missina cosa rara,

a piscari mi-nn’annai.

Un mari lìsciu com’a-ll’ógghiu,

pulitu e trasparenti

unni pisci ci-nn’è tanti.

Ddu lenzi iò piazzai

e mi misi a passiari

pinzannu a Colapisci,

’nta ’ddu bbrazzu ’i mari

chi Scilla e Cariddi pasci.

Mi sintia salutari, mi girai

e visti un cristianeddu

c’un cappeddu ’i pàgghia supra ’a testa,

’na cammìcia a ciuri,

un pantaloncinu iancu

e un paru ’i scappi ’i tennisi dû stissu culuri.

«Chi fannu, manciunu?», mi dissi.

«Chi pigghiasti? Chi-ssi’, missinisi?»

«Missinisi e mi-nni vantu», ci dissi, «ma tu cu si’, chi-ddici?».

E vaddannulu ’nta-ll’occhi,

un passu arreti ’i sissant’anni fici.

’A nostra scola media ni ricuddammu,

non mi paria veru,

e comu ddu frati n’abbracciammu.

- di Marco Giuffrida -

No, non era roba militare!

Cannone era il Signore che, quando lo trovava, vendeva, nel suo negozio, o quello che restava del suo negozio, l’olio d’oliva.

La “sugna”, lo strutto, era il principale grasso che veniva adoperato per cucinare.

Un uovo fritto nella sugna, con un pizzico di sale, era una cena eccellente che, magari non riempiva tanto lo stomaco, che il pane disponile era poco, ma, almeno, dava le calorie sufficienti.

Ma, per condire, magari un cucchiaio solo, l’olio ci voleva.

E l’olio, negli anni successivi alla guerra, diciamo dal 1947 al 1950 era merce abbastanza rara e cara.

Lo si comprava sfuso.

Come del resto sfusi si acquistavano zucchero, pasta, farina e tante altre cose.

Non so quale “codice” esistesse ma, certamente, c’era un qualche messaggio, che rimbalzando di casa in casa, di famiglia in famiglia, da donna a donna, metteva in moto il meccanismo della “migrazione”.

“Arivò l’oghiu da Cannuni!” (e chiedo sempre scusa per il mio modo di interpretare e scrivere il messinese).

Ed ecco che le mamme, con i ragazzi per mano, si ritrovavano in strada, bottiglia di vetro in borsa, dirette verso la Bottega di questo Signor Cannone.

Dall’angolo dei miei ricordi esce chiara l’immagine di donne che si accompagnavano fra loro, con bambini per mano, precedute da frotte di ragazze e ragazzi più grandi in allegra conversazione.

Ancora oggi, mi impressiona, nel “proiettarmi” queste “scene” l’assoluta mancanza di uomini adulti in questi “andirivieni”.

Per via, a volte, si incontravano si degli uomini ma erano stranieri, in divisa, armati e, spesso, di colore.

Vi erano, anche, militari marocchini, o qualcosa del genere, che affiancavano le truppe americane e, soprattutto di questi, le donne avevano paura dato che vi erano stati “incidenti”.

Uno dei motivi, questo, per cui (lo seppi dopo, da grande) le donne andavano in gruppo.

Dal Torrente Boccetta si scendeva verso il mare e, prima di arrivarvi, bisognava girare a sinistra e proseguire verso l’estrema periferia.

Si passava a fianco di mucchi di macerie che, rimosse dalle strade, erano state ammonticchiate negli angoli di quelle che, una volta, erano case.

Infine, e come in tutti gli esercizi che potevano offrire in vendita qualcosa, ti accorgevi d’essere arrivato per la gente che aspettava fuori vociando.

Pian piano, all’uscire di chi era dentro, la fila avanzava.

Un passo alla volta.

Appena entrati: “Quantu ni vuliti? Era la richiesta.

Scambio di merce contro denaro, ed il solito saluto: “voscenza benedica” e si usciva.

Non ricordo se, quell’olio verde e denso, fosse venduto a peso o litro.

Messo il tappo di sughero nella bottiglia riempita, la mamma la riponeva con attenzione nella borsa poi, con me per mano, usciva e, fuori attendevamo che le altre donne con cui si era accompagnata fossero servite per rientrare, assieme, a casa.

Condire la verdura, un cucchiaio alla volta, per qualche tempo, ora sarebbe stato possibile ma certo non avrebbe accontentato la nonna che recitava:

“Insalata ben salata, picca acitu e assai ugghiata e da ‘n porcu arriminata”.

Si, certo, per l’aceto si sopperiva con il limone, il sale non rappresentava un problema perché c’era e costava poco e, in quanto al molto “oliata”..... beh, quel poco del prezioso liquido che veniva messo, si distribuiva girando e rigirando la verdura ben di più e molto meglio di quanto avrebbe fatto il “maiale” della filastrocca.

Sapevo per certo, però, che, quel pomeriggio, qualche goccia d’olio sarebbe stata messa su una fettina di pane riscaldata sulle braci del fornello con l’aggiunta di un pizzico di sale ed uno d’origano.......

Ogni tanto, una merenda di lusso!

- di Marco Giuffrida -

Era lì di fronte al mio isolato proprio sull’angolo del Torrente Boccetta con via Ventiquattro Maggio (anche qui, spero di non sbagliare) dal lato della via, a senso unico, che dal mare portava verso la Circonvallazione.

L’insegna sporgente, ancorata al muro, era chiara ed inequivocabile: Sali, Tabacchi e Chinino di Stato.

Il sale, già varcando lo Stretto, era Monopolio, appannaggio esclusivo di vendita dei tabaccai ed a prezzo piuttosto alto.

Per questo era, addirittura, “oggetto” di contrabbando.

In Sicilia, credo perché luogo di produzione, era in libera vendita, sempre dai tabaccai, ma ad un prezzo irrisorio.

Dei Tabacchi c’è poco da dire...... salvo che le sigarette venivano vendute, anche, a “pezzo”.

Il tabaccaio, al bisogno, apriva un pacchetto di “Alfa” o di “Nazionali Semplici” (le qualità più economiche e che andavano per la maggiore), prendeva quanto richiesto che, accuratamente, metteva in una bustina di carta sottile. Per risparmiare di più, esisteva, anche, del tabacco “Trinciato”, nelle qualità “Dolce” e “Forte”, che poteva essere utilizzato, assieme alle “cartine”, per “costruirsi” le sigarette.

Il Chinino di Stato.....  quello era un antifebbrile che veniva venduto a prezzo basso per andare incontro alle esigenze di tutti, soprattutto dei meno abbienti. Serviva per combattere la Malaria, terribile malattia che, a quei tempi, pur essendo stata, quasi debellata, poteva, ancora, definirsi endemica.

Grandicello, mi piaceva essere inviato a comperare “u Sali”, “grossu” o “finu” a seconda della necessità.

“Stai attento ad attraversare la strada” era la raccomandazione - viatico della mamma che, comunque, dal balcone mi avrebbe osservato.

E questa raccomandazione ci fu anche quando, dopo alcuni incidenti piuttosto gravi, malgrado lo scarso traffico, misero all’incrocio il semaforo.

Scendevo le scale, attraversavo, con attenzione la prima metà della strada, percorrevo i “giardinetti”, poi la seconda metà ed infine, timidamente, entravo nel locale e ne assaporavo subito aromi e profumi.

Ne approfittavo per vedere fare i gelati: la grande macchina elettrica, grigia e lucida, la pala che, automaticamente, si alzava ed abbassava per mescolare l’impasto, il cestello che girava lentamente.

Fragola, limone, crema, torrone.......

“Picciotto”, mi sentivo apostrofare.

E chiedevo il sale.

 Pagavo e mi veniva consegnato un cartoccio cilindrico che sembrava un grosso e corto cero.

Un’ultima occhiata allo scaffale dei pacchetti di sigarette e al tabacco ed uscivo.

Quando tornò dalla prigionia lo zio Tino, gran fumatore, i viaggi aumentarono.

L’incombenza era quella di acquistargli “Nazionali Semplici”, ma morbide.

“Mi raccomando, morbide”, aggiungeva perentorio.

Il Signor Abate, o Abbate che fosse, prendeva dallo scaffale diversi pacchetti che, in punta di dita, premeva dopo averli deposti in fila sul banco.

Sceglieva quello che riteneva più adatto e me lo consegnava.

Non vi fu mai una lamentela.

Io, intanto, una volta di più avevo gustato l’aroma del caffè espresso e quello delle essenze dei gelati, dei limoni e dei dolci.

In un lampo, ma sempre con attenzione, riattraversavo il Torrente Boccetta e tornavo a casa.

- di Marco Giuffrida -

L’Isolato 374 faceva angolo con via XXIV Maggio e lì terminava, partendo dalla foce, la parte coperta del Torrente.

Due vie, a senso unico: una dal mare alla Circonvallazione e viceversa..

Nella parte centrale e coperta del torrente facevano bella mostra delle aiuole con qualche oleandro e delle panchine semicircolari in pietra nel cui centro, a corona le spalliere, vi erano vasche con una palma.

Qui, la sera, noi ragazzi degli Isolati vicini, ci incontravamo, dopo cena, nelle lunghe serate estive per esorcizzare il caldo. 

Un po’ più tardi scendevano i “grandi” dopo che le donne avevano riordinato la casa.

I genitori si perdevano in chiacchierate infinite di cui, noi ragazzi, non afferravamo il senso……. C’era un po’ di tutto, in quei discorsi….. ma, le parole più ripetute erano speranza e futuro.

Io, complice il calar della sera e la scarsissima illuminazione, giocavo con i miei coetanei a “nascondino” o a “nasconderella” ma, anche la “mosca cieca”, alle prime penombre, non era disdegnata.

Estate dopo estate, però, con il crescere, i giochi cominciarono a lasciare lo spazio ad un più tranquillo conversare ed anche i discorsi di noi giovani cominciarono ad arricchirsi delle parole “speranza”, “futuro”, “lavoro”.  Si tiravano le somme sulle esperienze e sui risultati scolastici, si discuteva dei “compiti delle vacanze” e si progettava, per l’indomani, la “calata” al mare.

Come e dove si poteva.

In genere era la spiaggia libera, in mezzo a tanta gente chiassosa che arrivava sulla battigia già al mattino presto occupando i posti migliori. Ma, a noi, andava bene lo stesso anche dietro, un po’ più lontani dal mare.. Ci si alternava, ragazze con ragazze e ragazzi con ragazzi, per metterci il costume e, prima del rientro a casa, cambiarci, “costruendo” improvvisati ripari di asciugamani.

Appena pronti, ci si sedeva sulla sabbia rovente e si continuava a chiacchierare, a ridere ed a scherzare così come si era fatto la sera precedente al Torrente Boccetta.

Spesso si avevano a disposizione, a turno, i tamburelli o un pallone con cui si giocava a “palla a volo” pur non disponendo di una rete.

All’improvviso, qualcuno, abbandonando il gioco o la conversazione, seguito da tutta la ciurma di grandi e piccoli, prendeva la rincorsa schivando la gente e si tuffava in mare.

Ricordo l’impatto con l’acqua che sembrava sempre gelida a contatto con la pelle impietosamente arrossata ed arroventata dal sole.

Tutti sguazzavamo felici nel nostro mare nuotando così come si sapeva e, qualcuno, lo faceva, anche, con l’aiuto di una camera d’aria d’auto che non …..  era più possibile rattoppare.

Raramente, ma accadeva, si abbandonava la spiaggia libera e ci si recava ai “Bagni Vittoria”.

Era un avvenimento!

Come sempre, i più grandi custodi dei più piccoli……  Agata “Tinuccia”, Sandro, Cosimino, Salvatore, Giovanni, Maria, Angela, Teresa, Gabriella, Antonio, io,Marco,….. ed altri ancora…..  Un gruppo nutrito di gioventù con le età che andavano dai diciotto  venti ai sei, sette anni.

Il vocio allegro ed eccitato del drappello si disperdeva, contrastando, nelle vie assolate, con le tristi rovine delle case distrutte dai bombardamenti.

In fila, “quasi” ordinata, si scendeva al mare seguendo la parte in ombra del Torrente Boccetta. Ognuno aveva il proprio asciugamano arrotolato in mano o sotto il braccio ed un cartoccio con un po’ di frutta (“mi raccomando, non lasciate bucce e noccioli in giro e non gettate nulla in mare” erano le raccomandazioni delle mamme).

Arrivati, all’ingresso, il più “vecchio”, raccolti i soldi, pagava l’entrata per tutti e contrattava perché qualcuno dei più piccoli potesse accedere gratis.

Lì, ai bagni Vittoria era tutto diverso.

La spiaggia, pulita ed ordinata, ci accoglieva con le file di sdraio ed ombrelloni ben allineate. Cambiarsi non era un problema nelle spaziose cabine di legno bianche con i decori azzurri. E bello era spostarsi sui camminamenti di assi di legno senza scottarsi i piedi.

Lì, ai Bagni Vittoria, sembrava di vivere in un sogno.

Ti si allargava il cuore entrando, nel vedere tutta quella bella gente sdraiata: gli uomini intenti a leggere il giornale e le donne indaffarate a spalmarsi di Crema Nivea per meglio abbronzarsi.

Ricordo, c’era una famigliola formata da mamma, papà ed un bimbo biondissimo, Peter.

Svedesi.

Lui, il papà, era il comandante di un rimorchiatore d’alto mare ormeggiato nel porto.

Non ci si poteva sbagliare, passeggiando sulla banchina: era la prima nave ormeggiata dopo la Palazzina della Capitaneria.

Cosa ci facesse a Messina un rimorchiatore svedese me lo domando ancora oggi.

La moglie, la mamma, biondissima, alta e slanciata indossava sempre un “due pezzi” che suscitava l’invidia delle ragazze e l’ammirazione di tutti i ragazzi più “vecchi”. Il piccolo Peter, neppure due anni, correva nudo dalla battigia all’ombrellone con il suo secchiello che riempiva in mare e svuotava in una ingorda e mai sazia buca che aveva fatto nella sabbia.

“Loro”, gli svedesi, si potevano permettere una cabina privata, l’ombrellone e le due sdraio, in prima fila, vicino al mare……   Loro……..

Verso le una avevamo già dato fondo alle nostre provviste...... La frutta saziava e dissetava.......

Bisognava attendere che finisse il periodo della digestione e, di questo, i ragazzi più vecchi erano responsabili e noi, più piccoli, ubbidivamo ad evitare d’essere esclusi dalla “puntate” al mare la volta successiva.

Restavamo lì, ai Bagni Vittoria, fino a quando ci era possibile.

Ma, per noi, la giornata, chi sa perché, finiva sempre troppo presto.......

 

Nel giorno in cui Ella, reverendissimo Padre, dà inizio al «servizio ministeriale a favore della Chiesa di Messina - Lipari - Santa Lucia del Mela», l’Associazione Culturale Messinaweb.eu, facendosi interprete dei numerosi lettori del suo giornale online, esprime profondissimo compiacimento per la Sua ascesa all’alto ministero, augurandoLe di potere continuare a svolgere, con l’aiuto di Nostro Signore e della Madonna della Lettera, nonché col sostegno del clero più zelante e dei molti fedeli operosi, l’attività pastorale a favore degli umili e degli ultimi, che ha già avviato, con spirito profetico e con autentico amore cristiano, nella diocesi di Siracusa.

Ci conferma nella nostra convinzione - e dà ali alla nostra speranza - l’umiltà con cui Ella ha voluto presentarsi come il «Servo di Jahvè» che, insieme con la comunità ecclesiale, accoglie la missione affidatagli, «allontanando ogni tentazione di ambizione, di orgoglio, di potere, di sopraffazione, di arroganza, di ipocrita manipolazione, di sciocca adulazione, di bizantinismo ecclesiastico dannoso e mieloso». Avvertiamo, difatti, nelle Sue parole, lo stesso alito innovativo, e tuttavia radicalmente evangelico, del messaggio di papa Francesco, che l’immagine salvifica di un Dio «misericordioso» propone incessantemente ai fedeli, attuando contemporaneamente, con in suoi comportamenti e le sue concrete scelte di vita, una chiesa «povera per i poveri», vero «ospedale di campo» per tutti coloro che soffrono. Il Suo desiderio di continuare ad essere chiamato «Padre» (e non «Eccellenza»), insieme con i modi anticuriali del Suo discorso e i tratti familiari del Suo dialogo, muove nella stessa “francescana” direzione: lo stile non mente.

Ma appare anche chiaro, nella Sua omelia e nell’intervista concessa ai giornalisti, che non c’è generico buonismo nel Suo programma, bensì lucida consapevolezza, illuminata dalla fede in Dio, dei limiti della condizione umana e fermezza nei propositi di denuncia del male in qualunque parte della società si annidi e di lotta senza quartiere.

Non saremo, certamente, noi a nasconderci che non mancheranno difficoltà da superare in questa nostra diocesi, in cui, nonostante l’impegno di molti sacerdoti e di numerosi cittadini onesti, la crisi economica scava abissali falle sul terreno della morale sociale e individuale: crescono, purtroppo, tra i giovani, comportamenti regressivi, autolesionistici, banalmente edonistici; aumenta l’uso della droga; non si riduce la cancrena del malaffare e della corruzione.

Ma un buon pastore – Ella tiene a questo titolo “francescano” – riuscirà a tracciare vie di salvezza per il suo gregge. Con l’aiuto di Dio, della Madonna e della comunità intera dei fedeli.

Rosario Fodale

Presidente Associazione

 

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