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Antonio Magagnino, L’eccidio della colonna Gamucci. Storia dei Carabinieri Reali comandati dal col. Giulio Gamucci, “Per non dimenticare”, Roma, Herald Editore, 2015-

 di  Giuseppe Caramuscio -

Negli anni 1943-45 i Balcani occidentali costituiscono il teatro di quelle che non pochi storici individuano come le prime manifestazioni della Resistenza dell’esercito italiano, autonomamente decisa e condotta: in Dalmazia e in Montenegro resti di divisioni si uniscono ai partigiani jugoslavi, in Grecia una parte delle forze passa a fianco del “Corpo nazionale popolare di liberazione”, e a Cefalonia la Divisione “Acqui” dà vita ad una resistenza autonoma contro l’ex-alleato tedesco, un atto di sfida compiuto prima ancora che si schiudesse una più precisa prospettiva politico-militare.

All’indomani dell’8 settembre 1943, assai problematica appare anche in Albania la situazione delle truppe italiane ivi stanziate: solo la Divisione “Brennero” riesce a reimbarcarsi, mentre le altre Divisioni, fatte oggetto di un vergognoso patteggiamento fra i tedeschi e il Comando gruppo armate est, che aveva accettato il disarmo parziale in cambio della promessa di reimbarco, vennero in gran parte sopraffatte e sterminate. La “Perugia”, attratta sulla costa, vide fucilati 160 ufficiali compreso il suo comandante. La “Firenze” seguì invece la via del combattimento impegnando a Kruja le soverchianti forze tedesche. Ma nel complesso risulta molto difficile, anche a distanza di oltre settant’anni dai fatti, ricostruire i percorsi e le drammatiche vicende dei tanti reparti in cui i soldati italiani si sono frantumati in quel territorio, lasciati allo sbando a causa dell’assenza di una direzione politico-militare unitaria e responsabile.

Ad una di queste innumerevoli storie è dedicata la presente monografia, scritta da un sottufficiale dei Carabinieri che, allo scopo di fare chiarezza su un episodio accaduto sul fronte albanese, ha profuso molte energie in anni di scavo negli archivi e nella raccolta di testimonianze. Antonio Magagnino non è nuovo a ricerche particolarmente ardue, essendosi già impegnato in studi di caso sulla persecuzione degli ebrei e su eccidi dei nazi-fascisti nell’Italia centro-settentrionale, in collaborazione con Istituti storici della Resistenza e con Università. Già nel ruolo ispettori dell’Arma, il maresciallo Magagnino spende tale competenza nel tentativo di ricostruire, quanto più fedelmente possibile, la dinamica e le responsabilità di un tragico episodio accaduto in Albania nel novembre 1943: la fucilazione di centoundici carabinieri da parte di partigiani comunisti al comando di uno dei leader della locale Resistenza, Xhelal Staravecka, nei boschi sul monte Panit, a nord-est di Labinot. L’orgoglio di appartenenza all’Arma, coniugato con la passione per la Storia, non impedisce all’Autore di vagliare criticamente la documentazione allo scopo di comprendere le ragioni dei fatti. Perché questo eccidio? Per molti anni la risposta a questa domanda si è basata sul risentimento di parte della popolazione albanese nei confronti degli occupanti italiani, che non di rado avevano fatto ricorso alla forza per domare focolai di ribellione o per stroncare la connivenza tra civili e guerriglia anti-italiana. In sede giudiziaria, a tale motivazione di fondo si è aggiunta quella della rapina, finalizzata all’appropriazione di danaro e mezzi in possesso della colonna dei carabinieri.

Ma queste spiegazioni non convincono pienamente Magagnino, da lui ritenute piuttosto concause di fattori più profondi, volutamente occultati per tanto tempo. Egli non crede, infatti, che Staravecka abbia potuto agire senza l’avallo del Comando locale, formato da inglesi e da italiani. Gli accordi raggiunti dopo l’8 settembre, infatti, prevedevano che tutti i militari italiani che si rifiutavano di collaborare con i tedeschi dovevano essere considerati alleati dei partigiani. L’Autore ritiene che la strage sia da collegare a fattori, bellici e pre-bellici, più ampi e complessi, in primis il tentativo dell’Arma di introdurre elementi di razionalità giuridica che una società arretratissima rifiuta, avvertendoli come estranei.

Più della metà del volume ospita una ricchissima e variegata raccolta delle fonti e dei documenti utili alla ricostruzione della vicenda: l’elenco dei carabinieri uccisi, con i relativi dati anagrafici, il memoriale per il processo di Staravecka del ’51, gli articoli pubblicati da alcuni quotidiani italiani tra il ’52 e il ’55, atti processuali, alcune corrispondenze interistituzionali, tra privati e istituzioni, mappe del territorio albanese e altro ancora. A tanta abbondanza documentaria non corrispondenza altrettanta dovizia bibliografica, poiché – denuncia Magagnino – non esistono solidi riferimenti al caso in letteratura, salvo pochi cenni in alcuni libri.

Scopo fondamentale del libro è quello di conservare la memoria delle persone e dell’accaduto; ma accanto a questo, l’Autore indica chiaramente gli altri obiettivi utili ad un completo ristabilimento della verità storica, a cominciare dall’individuazione certa e completa dei mandanti e degli esecutori materiali dell’eccidio. In tal senso egli auspica la disponibilità degli archivi albanesi dove presumibilmente potranno essere conservati documenti funzionali ad una migliore intelligenza non solo della vicenda specifica, ma della storia dell’esercito italiano sul fronte albanese. Ma le difficoltà frapposte al ricercatore non sono provenute solo da parte delle autorità del Paese delle Aquile, ma anche dai responsabili degli Archivi ministeriali italiani. Al riguardo Magagnino avanza l’ipotesi che la non adeguata collaborazione sia dovuta alla necessità di coprire le responsabilità dei comandi italiani, che hanno abbandonato le truppe alla mercé dell’ex alleato nazista.

Stretto tra l’esigenza della giustizia e la necessità di tacere su omissioni e responsabilità, la magistratura italiana ha perseguito e condannato solo il comandante (nonché tra gli esecutori) dell’eccidio, ma non ha approfondito la questione e, di conseguenza, le figure del col. Gamucci e dei suoi carabinieri sono cadute nell’oblio.

In lavori come il presente non è facile mantenere salda la distinzione tra giudizio morale e giudizio storico, tra aspetti giuridici e valutazioni sulle singole persone, difficoltà palesata dallo stesso Autore, quando dimostra – comprensibilmente – di schierarsi troppo decisamente dalla parte degli appartenenti all’Arma, se non altro per rispetto alle vittime della negligenza dei comandi. A livello storiografico, il libro ripropone, osservando l’Albania, il dibattito sul significato della Resistenza al fascismo e al nazismo, nella fattispecie animata da una ideologia comunista piuttosto grezza diffusa tra combattenti poco disciplinati e di infima coscienza politica. Magagnino riprende altresì l’analisi dei diversi tipi di opposizione all’invasore nazi-fascista (anche in Albania la distinzione tra la Resistenza monarchico-nazionalista e la lotta a guida comunista è netta e conflittuale); il libro recupera i rapporti tra popolazione civile, occupanti e resistenti; dal punto di vista italiano, i rapporti tra esercito regio e milizia fascista – anche sui fronti di guerra –; e, più in generale, la fallimentare conduzione della seconda guerra mondiale durante e dopo il regime fascista, salvata solo dalla dignità di alcuni comandanti e dei rispettivi reparti.

Un lavoro serio, indubbiamente, che ci fa riflettere quanto ci sia ancora da fare per lumeggiare le parti ancora oscure del secondo conflitto mondiale, che la realpolitik ancora impedisce di esplorare.

Herald Editore, 2015, pp. 450, € 30.

 

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