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I caliari di Naso (Me)

 

1calia

I Triscari

Andando in Sicilia e trovandosi nel bel mezzo di feste di paese, capita di vedere montate bancarelle con leccornie di dolciumi tra cui, accanto ad arachidi e nocciole, dei chicchi dalla forma sferica: la “calia”.
Con l‟appellativo “Caliaru” (italianizzato in “caliaro”) s‟intende chi lavora e vende la “calia” ovvero i ceci. Non si tratta ovviamente di ceci qualsiasi: la qualità è data da una tipologia molto antica di questo legume caratterizzata dalle dimensioni piccole.
Normalmente quando si pensa ai ceci l‟idea è quella che siano cotti in pentola, magari con sedano, cipolla e pasta, ma a Naso i ceci, o meglio la “calia” viene mangiata in modo diverso e ha soprattutto un significato simbolico particolare.
Abbiamo notizie del mestiere di Caliaru di Naso risalenti ai primi anni del Novecento nella figura di Campana Carmelo, capostipite della tradizione della calia a Naso. Ma ad affermare la popolarità e divulgare quest‟arte culinaria sarà il figlio Nicola Campana, nato nel 1933, che vi ha dedicato tutta la sua vita con passione e sacrificio coinvolgendo la famiglia, moglie e due figli maschi di cui uno, Carmelo Campana, continua tuttora la tradizione.

La lavorazione della calia richiede tempo, pazienza ed esperienza per far sì che i ceci abbiano la giusta sapidità e croccantezza. La tipologia del terreno e del clima non permettono di coltivare in grandi quantità questo tipo di legume, così veniva preso a Enna e Siracusa. Durante la pulitura di questi ceci veniva coinvolto tutto il vicinato che dava sempre una mano con piacere. Si procedeva quindi a preparare in una piccola giara la “sammòria”, ovvero la salamoia fatta con acqua e sale, che si aggiungeva poco alla volta ad un calderone (in siciliano “quadaruni”) riempito con semplice acqua. Preparato il fuoco con la legna predisposta a ferro di cavallo sotto il gran pentolone, si immergevano i ceci in sacchi di juta e si iniziava la conta dei secondi: intorno ad 80/85 secondi si levava il sacco e si metteva a colare. Importante in questo passaggio la ben precisa dose di sale per non causarne lo spellamento. Successivamente i ceci, tolti dal sacco, venivano messi nella maìdda (madia in italiano, indica il recipiente in legno in cui si impastava il pane) a riposare con sopra delle coperte per 15 minuti circa. Poi in una calderone più piccolo (in siciliano chiamato “menzu aranciu”) si metteva la sabbia marina, il caliaro controllava poi che fosse alla giusta temperatura per metterci a poco a poco i ceci, e iniziava lo spettacolo: con un cucchiaio di legno di grandi dimensioni girava rapidamente i ceci formando col movimento un otto; al suono scoppiettante simile a quello dei pop-corn la calia era pronta. Disposta in una cesta larga e bassa con una fascia diagonale ai lati da mettere al collo, “ „u trinnigghiu”, il caliaro Nicolino, ricorda il figlio Antonio Campana, partiva in groppa al suo asinello in giro per i vari paesini limitrofi: Militello, Frazzanò, Alcara Li Fusi, Mirto, fin quando non giunsero i tempi dell‟automobile e iniziò a montare le bancarelle in occasione di festeggiamenti di santi patroni.
Altra famiglia di Naso che porta avanti questa tradizione sono i F.lli Triscari; partendo dal padre che aveva iniziato questo mestiere grazie all‟incoraggiamento di Nicola Campana, oggi i fratelli Triscari da più di 10 anni portano i sapori di Sicilia in tutta Italia, in particolare nella zona centrale della penisola. Il procedimento per ottenere la calia è lo stesso di tanti anni fa, ma vi è una novità introdotta nell‟ultima fase di preparazione: un macchinario rudimentale, creato dalle idee di queste famiglie “caliare”, per ottimizzare i tempi e avere sempre la calia bella calda. In pratica si posiziona su una fiamma una sorta di pentola/cestello in alluminio con una estremità aperta inclinata verso l‟alto che gira di continuo con ceci e sabbia grazie ad un motorino preso per l‟occorrenza da una lavatrice.
Maurizio Triscari ci spiega che oggi è rimasta una sola famiglia a Ramacca che coltiva questa tipologia di ceci e che questo lavoro richiede molta passione e impegno perché si perdono molte ore di sonno tra la preparazione e la vendita alle feste.
Nel vedere i caliari a lavoro sono due le cose che colpiscono di più: sentirli “banniare” e il momento dell‟assaggio dei loro prodotti.
Per il venditore ambulante è solito “urlare” le qualità dei suoi prodotti ai passanti, ma nel caso dei caliari l‟invito a comprare è arricchito da filastrocche come “Signora Maria, signora Rosa, sta calia è tutta n‟atra cosa”, e doppi sensi costruiti sull‟ambiguità di parole siciliane, come ad esempio “pacchi, pacchi chini, inchitivi i pacchi”coi quali si tentava di avere la meglio sulla concorrenza.
L‟assaggio è il momento in cui il caliaro dà dimostrazione della genuinità del prodotto; ultimamente infatti sul mercato italiano si trovano ceci importati dalla Siria: la differenza, oltre che nel gusto, sta nella cottura finale fatta con della polvere bianca.
Tradizione ormai scomparsa, quella di tirare la calia addosso alle vare dei Santi in segno di devozione. C‟erano diverse persone che pagavano infatti il caliaro per tirare la calia sul santo: pratica ormai abbandonata per preservare lo stato di conservazione, spesso successivo a restauro, delle vare.

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Campana Nicola

 

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Oltre alle famiglie Campana e Triscari , han dato il loro contributo nel mestiere di caliari e continuano a farlo le famiglie Spaticchia e Caliò.

A proseguire questa arte anche una famiglia di S. Angelo di Brolo che aveva appreso i trucchi del mestiere proprio dai nasitani.
Un antico mestiere che passa tra le mani di nuove generazioni, metodi antichi utilizzati ancor oggi e arricchiti, il tutto espresso in un connubio di filosofia slow food con il finger food, ovvero gustare un cibo con le mani, in particolare la calia, accompagnata magari con un po‟ di cannellina (cannella zuccherata) in qualsiasi luogo o momento della giornata.

Ultima modifica il Martedì, 11 Ottobre 2016 20:05
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