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Santo Carmelo Bonfiglio - l'arte dei cestini in vimini - Sinagra (Me)

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Quando ero bambino, all'età di dieci anni, imparai con pazienza a lavorare i materiali, come la canna e la verga, che la natura ci fornisce per costruire le classiche ceste (cufine), cestini (panari), i contenitori per il pane (ziruni), essiccatoi per la frutta (cannizzi). Allora era il bisogno che spingeva noi giovani a ritrovarci davanti al fuoco durante le sere d’inverno, per produrre quelli che non sarebbero stati oggetti decorativi ma di uso quotidiano come per la raccolta di olive, nocciole, agrumi e funghi.
Ho continuato a lavorare la canna fino all’età di venticinque anni, quando nuove esigenze mi hanno spinto ad abbandonare questa che considero una vera e propria “arte”. Ora che ho sessantotto anni e più tempo da dedicare a questa passione, ho deciso di ricominciare da dove avevo terminato e trasformare questa da lavoro in hobby, poiché i bisogni sono cambiati e gli stessi “panari” hanno assunto l’unica funzione di manufatti artistici, atti a testimoniare un passato non molto lontano di cui anche io orgogliosamente facevo parte. Col mutare dei tempi però a cambiare è stato anche il mio lavoro, adesso ho cominciato a creare piccoli oggetti che con la fantasia si sono trasformati in lampadari, portaombrelli, portabottiglie, portafrutta ed vari altri, non abbandonando mai però la strada maestra. Il mio lavoro incomincia quando andando in giro per la campagna raccolgo la verga di ulivo, salice, castagno e roverella. Altro elemento importante è la canna, raccolta nel “mancu da luna di innaru” (in gennaio, colla luna nuova) che all’occorrenza viene pulita e tagliata in modo da rapportarsi alla misura delle verghe.

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Alla prima fase segue la creazione del “panaro” vero e proprio partendo dal fondo incrociando otto verghe spesse intrecciando su esse altre tre verghe più fini che man mano che finiscono sono congiunte ad altre. Prima che il fondo venga terminata con il cosiddetto “trizzune” (treccione) vengono innestate circa cinquantasei verghe che serviranno a sostenere la canna che funge da parete per il “panaro”; la canna intrecciata è poi bloccata dalla cosiddetta “trizza” (treccia) ottenuta intrecciando la rimanente parte di verga. Il tutto oggi mi rende orgoglioso in quanto non solo mi permette di passarmi il tempo quotidianamente, ma riesco a trasmettere alla gente una tradizione che faceva parte del mio passato, augurandomi che quest’arte e/o antico mestiere non svanisca mai.

Ultima modifica il Martedì, 11 Ottobre 2016 20:18
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