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La rivoluzione cristiana di Papa Francesco

 

All’inizio del Terzo millennio eravamo rassegnati – noi, cristiani sessantottini, investiti dal rinnovamento giovanneo e dalle vivificanti aure del Concilio Vaticano II – all’ineluttabilità di una chiesa cattolica double face: vivificata, da un lato, come non mai, da forti fermenti evangelici (Madre Teresa), e definitivamente ingessata, dall’altro, dentro la sua bimillenaria struttura verticistica, tridentina, romana.

Si andava perdendo persino il ricordo, qua a Messina, di quella splendida stagione dei cattolici democratici (i Providenti, i Magistro, i Giunta e non pochi altri) che avevano saputo spargere semi di novità missionaria, di cultura e di carità cristiana negli aridi, piatti e cespugliosi terreni – con poche eccezioni – della cattolicità locale.

Su scala nazionale, parimenti, il cattolicesimo appariva viepiù offuscato dai maneggi politico-economici della Curia romana e della Banca Vaticana (Marcinkus), nonostante la luminosa presenza dei grandi papi del secondo Novecento. Si pensi: Giovanni Paolo II annunciava la buona novella al mondo intero, con modi nuovi, anche rudi, improntati ad autentica spiritualità, e denunciava la fallacia delle ideologie sia comuniste sia liberiste, ma trionfavano, in pratica, i cardinali Sodano e Bertone, che imponevano al popolo dei credenti lapax berlusconiana in cambio della stabilizzazione dei professori di religione, mettendo peraltro un macigno sulle aperture del Concilio e sui cosiddetti principi «non negoziabili».

Ma venne Francesco e ci restituì, sin dal sua prima apparizione, da papa, sul balcone di San Pietro, la gioia della speranza giovannea: il linguaggio anticuriale del corpo e lo stile disadorno del saluto ai fedeli esprimevano immediatamente la forza dirompente della sua personalità e preannunciavano il suo modo radicale d’intendere e praticare l’alto ufficio a cui era stato chiamato.

Certo, in meno di un anno, papa Francesco ha realizzato, con semplici ma efficaci gesti, la rivoluzione cristiana, che era stata non solo nei nostri sogni giovanili ma anche nelle più alte aspettative di autentici pilastri del cattolicesimo giovanneo, quali il cardinale Carlo Maria Martini e il cardinale Gianfranco Ravasi: l’idealediventava di nuovo, finalmente, reale.

Ciò che connota, invero, il papato di Francesco è proprio lo smantellamento progressivo delle bardature romane della millenaria Ecclesia triumphans, con la restituzione definitiva della chiesa al mondo, ai fedeli, agli uomini di buona volontà: «una chiesa povera per i poveri», secondo una sua precisa dichiarazione d’intenti, e una chiesa «ospedale di campo», che curi le ferite dell’anima, senza chiedere la carta d’identità a nessuno, secondo le intenzioni del suo divino creatore.

Accantonata ogni preoccupazione rigidamente dottrinaria, speculativa, filosofica, Francesco torna, invero, alla purezza e alla essenzialità del messaggio di Cristo, che sull’amore (e non sulla Legge) si fonda. E rivive, a Roma, nel suo vicario, Gesù di Nazareth, dio misericordioso – «misericordioso» ripete spesso Francesco – dei poveri, dei peccatori, dei deboli, dei vinti (non già dei sovrani, degli eroi e dei potenti), messia di una religione che insegna a offrire l’altra guancia, ad amare tutti, anche i propri nemici.

Lui stesso, Francesco, per dare concretezza alle parole, riforma la Curia e i vertici della Banca Vaticana, abbandona i sontuosi appartamenti papali, vive come un prelato qualunque a Santa Marta, rinuncia alle croci d’oro, risponde a quelli che lo interpellano, dialoga con tutti, anche con gli atei (non devoti), porta scarpe grosse di contadino e viaggia in aereo con una borsa nera per gli indumenti personali e per gli oggetti utili nella vita quotidiana.

Quanto dire che non siamo più rassegnati, che non abbiamo perso. Il papa si è fatto uomo ed ha abitato tra noi (2014).

Ultima modifica il Lunedì, 08 Gennaio 2018 18:46
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